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 2025  aprile 23 Mercoledì calendario

Roy Paci: “Non voglio diventare la copia sbiadita di me stesso. Ai giovani dico: disubbidite sempre”

Per trovare un altro titolo così, Tromba, bisogna tornare ai tempi degli Squallor, a un loro disco del 1980. “Ma quella era musica demenziale, per quanto geniale e tecnicamente eccellente. Io invece sono serissimo”. Parola di Roy Paci, classe 1969 da Augusta, provincia di Siracusa, “forse l’unico che può permettersi di intitolare così una canzone senza dare scandalo”. Si vedrà. Intanto il pezzo c’è, si chiama appunto Tromba ed esce il 25 aprile, assaggio di un progetto in cui il trombettista e cantante siciliano, fondatore degli Aretuska, riprenderà lo stile di strada e cosmopolita di Toda joia toda beleza, il suo successo del 2007. Intanto riparte dal culto di uno strumento che, per lui, è un marchio di fabbrica. “Tanto che alla mia tromba ho anche dato un nome: ormai è risaputo, si chiama Sofia”.
Sofia?
“La chiamo così da anni. Suono da quando ne avevo dieci, si figuri, per me la tromba è una sorella, prima che un’estensione del corpo. È capitato che dormissimo insieme dopo dei concerti, in albergo era come se percepissi i suoi lamenti nel restare nella custodia. La vivo così. E poi, mi creda, è la mia penna usb con il mondo, mi ha messo in contatto con realtà che altrimenti non avrei mai incontrato”.
Su tutte, quali?
“Un pomeriggio, in tour a Cuba, sono stato da Compay Segundo. Lì ho ricevuto la sua benedizione, e ho fatto una figuraccia: ho bevuto il primo bicchiere di rum che mi aveva versato, ignorando che dalle loro parti va gettato via, perché è riservato ai nostri antenati scomparsi. Un’altra volta, sempre lei, la tromba, mi ha fatto conoscere Joe Strummer a un festival: era rimasto colpito dal mio suono. Queste esperienze mi hanno arricchito più dei successi. E mi hanno insegnato l’umiltà, in cui gente così è campione”.
Il suo stile nel suonare è cambiato?
“Ho iniziato a dosare le energie, per essere più lucido e parsimonioso. Da giovani si è presi dalla foga, mentre ora non posso permettermi troppi sforzi. Preferisco fare meno, ma farlo bene. Odierei diventare la copia sbiadita di me stesso”.
Cosa l’affascina della tromba?
“Il linguaggio universale, Toda joia toda beleza ha fatto ballare gente dall’altra parte del mondo. È questione di riff, di ritmica funk, un aspetto che ho cercato di recuperare in Tromba. I fiati sono di solito considerati d’accompagnamento, ma in realtà tengono in piedi le canzoni. Gli americani come Bruno Mars, tra i tanti, lo sanno bene”.
C’è qualcosa che riesce a dire con la tromba ma non a parole?
“Il maestro è Fela Kuti, che usava gli strumenti per cambiare il mondo. La chiave è lo sberleffo. A inizio anni duemila, in tour con Manu Chao nel progetto Radio Bemba, passammo a Milano: suonai in piazza Pinocchio, per dedicarlo ai politici di allora; un modo per dir loro che erano dei bugiardi”.
Lo pensa ancora?
“Anche peggio. L’etica e il senso di realtà è scomparso dal 90% della classe politica di oggi. Tutto si è spezzato a Genova, nel 2001. Sta a noi ricostruirlo, ma è difficile. Abbiamo smesso di credere nella politica come motore del cambiamento. E l’ascensore sociale si è rotto, lo stesso che anni fa ha invece permesso a me, di famiglia umile, di arrivare fin qui. Oggi, e lo dico da padre, i ragazzi hanno paura della ‘politica’ proprio come termine. Ma non è colpa loro. Lo è di chi ci ha fatto perdere questa speranza”.
Che classe politica vede?
“Una votata al consenso immediato, poco coerente, in cerca della frase a effetto. E basta. Non ci sono più, credo, i movimenti. Per questo vedo bene i pochi che esistono, per lo più giovanili, come quelli ecologisti. A loro lascerei spazio: ciò che mi fa paura, semmai, è una classe politica vecchia, ancorata su posizioni identiche a quelle di trent’anni fa e che fatica a farsi da parte”.
Trent’anni fa il 25 aprile era diverso?
“Ricordo una partecipazione diversa, sì. La Liberazione era la festa della consapevolezza, come quando si accende una spia nel motore: un piccolo remainder per ricordarci che la libertà non è scontata, ma è figlia della lotta dei partigiani. Oggi vedo solo machismo politico: si vuole l’uomo o la donna forte al comando, convinti che possa fare tutto – e meglio – rispetto alla libera democrazia. Anche qui: mi piacerebbe che i giovani raccogliessero il testimone di chi lottò allora e che ormai non è quasi più in vita, ma siamo noi – soprattutto i nostri intellettuali – ad averli lasciati soli. Serve un pensatore che unisca”.
Anche la politica è sparita dalle canzoni.
“È una conseguenza. Io, da condirettore dell’Uno maggio Taranto libero e pensante, il concerto per la Festa dei Lavoratori che organizziamo ogni anno, posso dire che meno della metà si battono per questioni politiche e sociali, mentre a molti altri non interessa. Però vale per tutte le età. Quelli che vengono, lo fanno perché ci credono: non per promozione, visibilità o altro”.
Ha un prezzo battersi?
“Io sono sempre stato dalla parte dei lavoratori, degli ultimi, degli sfruttati. Dalla parte delle nostre sorelle e dei nostri fratelli che arrivano a Lampedusa: porterei lì le classe in gita, si figuri. Ma ciò per cui ho sempre pagato davvero pegno è l’opposizione alle mafie, con minacce e ritorsioni. E ne ho ricevute a tutti i livelli. Ai tempi in cui Cuffaro era presidente della Sicilia fui invitato a un evento della Regione, dove dal palco citai di Falcone e Borsellino. I suoi andarono su tutte le furie, arrivando a minacciarmi, anche fisicamente, per capire chi mi avesse ‘autorizzato’. Come se serva il permesso per parlare di loro, o di Peppino Impastato. È di fronte a politici così che mi viene ancora più voglia di stare dalla parte dei giovani. La loro è una grande risposta, compresa la trap”.
La polemica sulla presunta violenza di certi testi la tocca?
“Ci sono testi e testi. Quelli violenti sono ovunque, così come le belle canzoni. Non è una questione di rap o non rap. Marracash, tra i tanti, è una penna geniale. Tra i più giovani, Kid Yugi è un rapper di vicino Taranto con un talento incredibile nel raccontare il disagio di chi è cresciuto all’ombra dell’Ilva: abbiamo provato a invitarlo al concerto, non poteva, magari sarà per il 2026. Allo stesso modo, tra i generi nobili come il jazz, o le presunte età dell’oro della musica, ci sono artisti scarsi”.
Lei, alle nuove generazioni, che consiglio darebbe?
“Quello che do a me stesso: disubbidire, sempre. La disobbedienza civile è la risposta. Pur con tutti i limiti che impone la Chiesa, Papa Francesco è stato, per esempio, un disubbidiente. La realtà dice di voltarsi dall’altra parte? Be’, noi vogliamo ancora, orgogliosamente, pensare agli ultimi”.