la Repubblica, 23 aprile 2025
“Mi siedo e piango”: Didion sul divano dello psicoanalista
«Mi sono seduta davanti a lui e ho iniziato a piangere. Mi accade raramente e mai nei momenti di crisi. Ma mi è molto difficile sedermi di fronte a qualcuno e parlargli». Tutto quel che Joan Didion non avrebbe mai voluto far leggere, approda ora in libreria nella forma di un libricino postumo intitolato Diario per John (pubblicato in Italia da il Saggiatore). Composto dalle sue editor con gli appunti buttati giù dalla scrittrice fra 1999 e 2002 al ritorno dalle sedute con lo psichiatra e analista freudiano Roger MacKinnon, a beneficio di un solo lettore: il marito John Gregory Dunne.
Fogli ritrovati dopo la sua morte, avvenuta nel dicembre 2021 a 87 anni: quando era ormai venerata icona letteraria, la cui penna aveva sapientemente cucito insieme cultura pop (The White Album) e politica (Verso Betlemme), il mondo editoriale di Manhattan e quello degli studios cinematografici di Hollywood per i quali, con Dunne, aveva scritto intramontabili sceneggiature, da È nata una stella a quel Panico a Needle Park che lanciò la carriera di Al Pacino. E chissà se l’autrice, che nel 2005 aveva poeticamente vivisezionato il dolore per la morte del caro John cui rimase sposata 40 anni ne L’anno del pensiero magico e svelato la sua tenace fragilità in Blue Nights del 2011, affrontando la scomparsa a 39 anni della figlia adottiva Quintana Roo, avrebbe voluto affidare alla curiosità vorace del grande pubblico pagine così personali. Infatti Diario per John è il racconto intimo d’un momento particolarmente drammatico. Didion s’era rivolta a MacKinnon, su consiglio del terapista di sua figlia, in cerca d’aiuto per meglio sostenere Quintana, alcolista che entrava e usciva dai centri di riabilitazione. Una situazione estrema, dal forte impatto sul suo equilibrio e sulla sua scrittura.
In mancanza di indicazioni specifiche, sono state le sue tre curatrici fiduciarie – l’agente Lynn Nesbit e le sue due editor di lunga data, Shelley Wanger e Sharon DeLano – a decidere di pubblicare quei fogli in cui svela i sogni di bambina («Divorziavo. Uscivo dal tribunale e c’erano i fotografi»), il senso d’inadeguatezza («Ho sempre tenuto tutti a distanza. Lavoravo, invece di impegnarmi»), la complessità di una maternità surrogata («Vidi con mia figlia La notte dei morti viventi quando aveva 7 anni. Volevo essere una madre diversa») e l’irritazione verso gli alcolisti anonimi frequentati da Quintana: («Se ricadi ti fanno sentire un fallito, ti spingono nel fango»).
Le pagine di Diario fanno parte dei 354 scatoloni d’archivio ceduti dagli eredi alla New York Public Library, da poche settimane a disposizione dei ricercatori. E dunque, in un modo o nell’altro sarebbero saltate fuori. Le curatrici si sono dunque prese la responsabilità di realizzare un “non memoir”: attesissimo da chi spera di scoprire nuovi dettagli della vita di un’autrice rimasta sempre enigmatica pur avendo svelato i suoi sentimenti più profondi.
Progetto, però, già molto criticato da amici e diversi lettori, che lo considerano troppo invasivo. Un po’ perché Didion s’era sempre detta contraria a pubblicazioni postume di inediti: lo aveva scritto chiaramente dopo la pubblicazione, nel 1986, di Giardino dell’Eden di Ernest Hemingway, suo autore favorito. Ma anche perché tutti i suoi scritti sono caratterizzati da una prosa cesellata e precisa. E questi sono invece appunti emotivi, sebbene dettagliatamente meticolosi, di quanto ricordava – o voleva ricordare – delle sedute con l’analista.
Pagine pubblicate così come sono state trovate, se si escludono correzioni di refusi e note a piè di pagina per dare contesto. Un flusso senza filtri, dunque. Dove, per dire, descrivendo dettagliatamente i molteplici ricoveri di Quintana in centri di riabilitazione, rivela le sconcertanti telefonate in cui la figlia biascica e inveisce. «Cerco di tenerla in vita, ma si sta uccidendo giorno dopo giorno», confida al medico. Che le suggerisce di «usare ogni mezzo, compreso il senso di colpa, per tenerla ancorata. Dille che nulla avrebbe più senso senza di lei».
Ci sono poi annotazioni riservatissime: come quella datata 2 febbraio 2000, dove allo psichiatra rivela la relazione con un uomo che la picchiava, descrivendone la violenza come «esempio di degradazione romantica». Non lo nomina, ma per i suoi conoscitori è certamente lo scrittore Noel Parmentel: lo stesso che minacciò di farle causa per il ritratto poco lusinghiero in Libro della preghiera comune.
A tratti, l’autoanalisi si fa brutale: «Il lavoro è il modo in cui ho scoperto di non essere presente emotivamente». Lo psichiatra (descritto a John in un passaggio: come un «John Wayne in abito blu nei panni di uno psichiatra») la incoraggia moltissimo. A fare i conti col padre depresso. Ad andare oltre l’estremo controllo per riconoscere le radici profonde dell’ansia di sentirsi costantemente inadeguata, madre da sempre intenta a proteggere Quintana da ogni pericolo fin da quando l’avevano adottata neonata. E lei arriva al punto di ammettere che il suo intero corpus narrativo scritto mentre la figlia era piccola «può essere letto come un tentativo di elaborare la separazione da lei prima che questa accada. Insomma, ho già elaborato tutto questo. Allora perché non riesco ad accettarlo?». Forse perché la sua fu una costante tendenza precoce ad anticipare catastrofi. Tanto da chiedersi costantemente nel libro dove ripete 50 volte la parola “controllo”: «A cosa vale vivere? Qual è l’eredita che lascio dietro di me?».