Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  aprile 23 Mercoledì calendario

Anna Foglietta: “Da madre presto ai figli l’ascolto che io non ho avuto”

Anna Foglietta è con Giuseppe Battiston in Storia di una notte (in sala il 30 con PiperFilm), viaggio dentro una famiglia normale sconvolta dalle ricadute di un lutto terribile.
Che esperienza è stata?
«Strana. Conosco il regista Paolo Costella da tempo e nella sceneggiatura ho trovato degli elementi che mi toccavano da vicino. Un nucleo familiare che, per certi versi, mi ricordava il mio. E poi penso sempre che il dolore, se attraversato, possa essere un’esperienza trasformativa. C’è tanta benedizione, in quella normalità che sottovalutiamo ogni giorno, presi da mille cose».
Il film è ambientato in un contesto particolare.
«Si svolge a Cortina, luogo sì mondano ma simbolicamente forte. Le persone vanno lì per sciare, socializzare, e per avere un contatto con la natura. Il mio personaggio è costretto a mostrare una facciata pubblica impeccabile: spesso il dolore è un tabù, qualcosa da non mostrare. Ma poi c’è la forza primordiale della natura che sovrasta tutto e ti obbliga a liberarti».
Quanto è fragile l’equilibrio e quanto è preziosa la felicità che una famiglia vive ogni giorno?
«Siamo costantemente connessi con i drammi del mondo. Quando prendi coscienza della preziosità della vita, capisci che quel valore dipende molto dal luogo in cui sei nato e vivi. Se ti sposti con la mente, ti rendi conto di quanto sia fragile tutto: in Ucraina, a Gaza, in Congo la vita di un bambino può finire da un momento all’altro, è una possibilità che ogni famiglia deve contemplare. Noi abbiamo un sistema che ci protegge, una sicurezza che diamo per scontata. Questo rende la famiglia il nostro rifugio, il cuore dentro cui cerchiamo un senso. E quando perdi un figlio, o un bambino si ammala, non riusciamo ad accettarlo».
Come stiamo educando i figli?
«Diamo loro troppo significato. Siamo una società figlio-centrica, che li carica di aspettative: imparare mille lingue, posizionarsi in un mestiere di alto profilo… Dimentichiamo la componente istintiva che appartiene a ogni essere umano e che dovrebbe guidare anche l’amore verso i nostri figli».
Le capita di confrontare la sua esperienza di figlia con quella di madre?
«Sì, ma è tutto cambiato. Non sono quel tipo di madre che dice “ai miei tempi”, però è vero. Sono sollecitati da immagini, notizie, quando mi dicono “sei vecchia” io non mi sento tale ma capisco che non ho gli strumenti per affrontare questo tempo come genitore. Posso cercare di proteggerli. Ritardare il loro accesso ai social. Mio figlio di 14 anni non li ha, la piccola di 12 nemmeno Whatsapp, quello di 10 neanche il telefono».
Ha visto la serie Adolescence?
«Sì. Ha aggiunto un tassello fondamentale alla conoscenza di ciò che vivono i ragazzi. Il linguaggio, i simboli, il modo in cui si relazionano. Sono stata in un centro antiviolenza, una 16enne mi ha detto: “Ho paura di crescere per tutto quello che vedo, sento, vivo”. Mi sono sentita responsabile come adulta. Non lasciamo spazio a pensieri costruttivi, c’è sempre un’aria di fine del mondo, che li blocca. Adolescence ci ha insegnato molto ma anche lasciato spaesati. Ma non credo che mia madre, ad esempio, mi abbia mai conosciuta davvero. Il rapporto si recupera ma non è la stessa cosa».
Che adolescente è stata?
«Mattacchiona. Mi sono divertita. Ho fatto politica, seguito concerti, letto molto, fatto teatro. Roma era piena di stimoli, c’erano tre concerti la stessa sera».
Essere considerata una donna con un forte impegno sociale e familiare ha circoscritto le offerte di lavoro?
«Penso di sì. Ma dipende anche da me. Non mi accontento più. Quando ero più giovane producevo tanto e mi facevo meno domande. Ora dico tanti no, non per snobismo: voglio fare cose che abbiano valore».
Gli amici dei suoi figli come la percepiscono?
«Come mamma, compagna, amica. Mia figlia ogni tanto mi dice: “Per favore, se ci accompagni in macchina, evita di dire: togli il telefono”. Mi “educa” lei. Li osservo, li ascolto».
Il suo spazio di libertà personale?
«Tutto quello che faccio me lo creo perché mi piace. Ho aperto un piccolo studio, passano amici, colleghi, la vicina di mia madre. È uno spazio di circolazione di pensieri. E poi, certo, il cinema. Il mio modo migliore per evadere».
I suoi film che le sono rimasti più dentro?
«Nessuno mi può giudicare, mi ha fatta conoscere al grande pubblico, è nata l’amicizia con Paola Cortellesi e Massimiliano Bruno. Noi e la Giulia, ho chiamato mio figlio Giulio anche per quello: in tempi in cui si parla di un maschile poco attento, lì ho trovato una compagnia di attori estremamente sensibili. E, tra gli altri, Storia di Nilde, la docufiction di Rai Uno su Nilde Iotti: parlare attraverso i suoi pensieri, le sue interrogazioni parlamentari mi ha fatto capire che gli esseri umani possono davvero fare la differenza».