repubblica.it, 23 aprile 2025
Monsignor Ambarus: “Prima di morire Papa Francesco ha donato 200mila euro ai detenuti dal suo conto”
Aneddoti, incontri, vittorie e sconfitte. E un fiore accompagnato da una lettera che i detenuti gli hanno affidato per posarlo sulla tomba di Papa Francesco.
Monsignor Benoni Ambarus ricorda tutto del rapporto tra il Papa e la popolazione carceraria. È consapevole dell’impegno profuso dal pontefice: «Fino a pochi giorni fa il Santo Padre trascinava il suo corpo a Regina Coeli, per urlare al mondo, con tutta la sua forza, la necessità di prestare attenzione ai detenuti. Gli ultimi suoi averi li ha donati a loro, 200mila euro dal suo conto personale», dice il Vescovo delegato alla carità e alle carceri. Che non dimentica neanche il risultato. Amaro. «Nonostante il suo enorme impegno, le istituzioni non hanno fatto nulla per dare anche solo un piccolo segnale. Il mio bilancio non è positivo».
Monsignore, iniziamo dalla fine, l’ultima visita in carcere del Papa.
«È l’immagine che riassume il rapporto tra il Papa e il mondo penitenziario. Pochi giorni fa era a Regina Coeli. Ricordo un uomo stanco, che si trascinava, ma urlava con la sua presenza il bisogno di attenzione ai detenuti. Si è trascinato per loro, fino all’ultimo respiro. Per questo i carcerati in lui vedevano la speranza. Per loro è morto un padre, è il senso della lettera che mi hanno affidato».
Il rapporto tra il pontefice e i detenuti è stato speciale.
«Sia per loro, che in lui ritrovavano la speranza. Sia per lui. Quando ne parlavamo lo vedevo affranto, soffriva pensando alle condizioni delle carceri. Ha mostrato sempre una grande attenzione, ma i suoi appelli sono finiti nel vuoto».
Il Papa non è stato ascoltato?
«Le parole, i gesti enormi che ha fatto, le lavande dei piedi, il Giovedì Santo, gli appelli sono stati raccolti poco e tradotti ancor meno in azioni pratiche. Chiedeva di fare di più per ridare dignità alle persone. In occasione di questo Giubileo aveva chiesto uno sforzo. Ma non c’è stata una traduzione completa dei suoi appelli. Come sullo sconto della pena. Una grande tristezza ha avvolto i detenuti quando si sono resi conto che le istituzioni non hanno fatto nulla, neanche un piccolo segnale: un mese, due mesi, magari non per tutti i reati. Come dire: “Te li abboniamo perchè crediamo nella tua capacità di rimetterti in piedi”».
Pochi giorni di pena in meno?
«Per la speranza. Lo ha insegnato il Santo Padre. Piccoli gesti che riaccendono le persone. Per dire che non ci siamo dimenticati di loro».
In questo senso l’apertura della Porta Santa a Rebibbia, la seconda dopo quella di San Pietro, che significato ha?
«È la cifra del pontificato. Quando su loro richiesta mi sono fatto portavoce con il Papa per aprire una Porta Santa, lui è stato entusiasta. Era un modo per riaccendere la luce sul mondo dei detenuti. Per loro significa speranza, presenza, rispetto. Di questo sono grato anche al dottor Giovanni Russo (ex presidente del Dap, ndr). Senza di lui non ci saremmo riusciti».
Come avete continuato il cammino del Santo Padre?
«Abbiamo trasformato la Porta Santa di Rebibbia in un lievito di animazione pastorale. Due volte al mese circa cinquanta persone entrano in carcere per celebrare insieme ai detenuti. Ma un penitenziario non è uno zoo. Occorre prima capire la forza di questo gesto. Quindi c’è una preparazione sulla realtà del carcere, a cura dei sacerdoti, delle suore, dei volontari, degli stessi detenuti. Subito dopo la celebrazione c’è un altro incontro sul senso dell’evento vissuto, ma anche sul come rimboccarsi le maniche. La Porta Santa sta accendendo la luce».
Ecco, come rimboccarsi le maniche?
«Ci sono molte cose che si possono fare, anche semplici. La prima: l’esserci sia durante la detenzione che dopo. Un carcerato recentemente mi ha detto che nessuno è mai andato a trovarlo. Mi ha fatto male e mi ha fatto riflettere. Basta esserci. C’è il bisogno di prendere per mano le persone quando escono. La seconda: provvedere alle necessità dei detenuti. Molti dipendono solo dalla carità. Lo Stato contempla solo il vitto, neanche le scarpe. O hai qualcuno o cammini scalzo. Sono fratelli e sorelle, non persone da dimenticare dietro una porta chiusa a chiave».
Cosa si impara dai detenuti?
«La resilienza. Io non so cosa avrei fatto al posto loro. Se non avessi avuto le possibilità che ho avuto, chissà cosa avrei combinato nella vita. Mi hanno insegnato la giusta gerarchia delle cose della vita, come gioire delle cose piccole. È edificante».
Un gesto lontano dai riflettori che il Papa ha fatto per i detenuti?
«Quando ho chiesto un contributo, mi ha detto che le finanze erano terminate. Poi ha aggiunto: “Non preoccuparti, ho qualcosa nel mio conto”. Ha inviato 200 mila euro di tasca sua. Ora, con il testamento, vengo a sapere che verrà seppellito grazie a un benefattore. Perché lui ha donato tutto se stesso agli ultimi».