repubblica.it, 23 aprile 2025
La vendita forzata di Chrome e Android non risolve il problema del monopolio di Google
Smembrare un monopolista in più società o privarlo degli strumenti che gli consentono di dominare il mercato sono due approcci che caratterizzano la filosofia americana dell’antitrust. Un esempio del primo caso è il clamoroso —per l’epoca— “spezzatino” della Standard Oil che, nel 1911, venne divisa in quarantatré diverse aziende. Circa un secolo dopo, nel 2001, per evitare di essere divisa in due —un’azienda avrebbe dovuto sviluppare sistemi operativi e un’altra, invece, applicazioni – Microsoft accettò di consentire ai fabbricanti di computer l’installazione di software sviluppati da terze parti.
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La strategia del Department of Justice contro Alphabet
Venendo ad oggi, la controversia che vede schierati il Department of Justice americano da un lato e Alphabet (Google) dall’altro ricalca essenzialmente lo stesso approccio e si concentra sullo strumento —Chrome— usato per asseritamente costruire un monopolio. Tuttavia, una scelta del genere risolve solo parzialmente, e non definitivamente il problema.
Costringere Alphabet a vendere forzatamente Chrome e Android e ad astenersi da operazioni contrattuali e societarie dirette a riprendere un controllo indiretto del mercato, come vuole l’atto di accusa del Department of Justice americano, non sono misure decisive per rompere il monopolio di Mountain View nel mercato dei motori di ricerca e in quello della pubblicità basata sulle ricerche testuali, perché è l’ecosistema per la raccolta dei dati degli utenti il punto di forza di Alphabet nei confronti della concorrenza.
Chrome condivide il codice con altri software come Brave, Avast Secure Browser e Microsoft Edge, tutti basati sul progetto open source Chromium. Il progetto, finanziato da Google, consente lo sviluppo di software per la connessione a siti web che siano indipendenti da Chrome ma che ne condividano il nucleo funzionale. Per esempio, Chromium non possiede alcune caratteristiche di Chrome, come il supporto per alcuni codec multimediali e, soprattutto, l’integrazione specifica con l’ecosistema Google, in particolare per quanto riguarda i sistemi di tracking dell’utilizzo da parte degli utenti.
Dunque, a differenza dell’Internet Explorer dei tempi della “Guerra dei browser”, il problema non è il fatto che all’epoca si dovevano sviluppare i siti tenendo presente le differenze nel modo in cui il browser di Microsoft interpretava il codice HTML, inducendo gli utenti a preferirlo rispetto agli altri (chi è vecchio abbastanza, per esempio, ricorderà i salti mortali per far quadrare la visualizzazione delle tabelle sui diversi programmi). In altri termini, Chrome in quanto tale non è una barriera all’accesso dei servizi offerti da chiunque.
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Il problema non è Chrome, ma l’intero ecosistema Google
Se, però, la reale criticità è l’intero ecosistema di Alphabet e non un singolo componente, non ha molto senso consentire a qualcun altro di comprare Chrome, perché nulla vieterebbe ad Alphabet di creare un nuovo browser con le funzionalità specifiche in grado di continuare a raccogliere i dati degli utenti meglio di quanto facciano i concorrenti.
Detta in altri termini, è questa integrazione che consente ad Alphabet di raccogliere informazioni in modo più efficiente di quanto fanno i concorrenti e non il software in quanto tale. Di conseguenza, se una misura deve essere adottata, dovrebbe essere quella che Richard Stallman propose, all’epoca della causa antitrust contro Microsoft: rendere pubbliche e pubblicamente utilizzabili le specifiche tecniche del modo in cui il browser interagisce con i sistemi di Google e del modo in cui sono gestiti i dati degli utenti.
Un discorso analogo vale per Android. Il sistema operativo è, nel proprio nucleo, liberamente accessibile, come dimostra il fatto che quando l’amministrazione Trump impose il bando su Huawei, le limitazioni riguardarono i servizi aggiuntivi di Google e non la possibilità di usare il codice dell’Android Open Source Project. Per qualche tempo gli smartphone del produttore cinese continuarono a usare Android, fino a quando nel 2024 non è stato realizzato un ecosistema autonomo, anch’esso caratterizzato da una versione open source. Per quanto riguarda (o dovrebbe riguardare) la controversia, la differenza fra la versione “googlizzata” è —ancora una volta— nel cosa e nel come viene gestito il flusso di dati generato dagli utenti.
Senza tutela i diritti degli utenti
E sono proprio gli utilizzatori di questi prodotti e servizi ad essere i grandi assenti nel processo.
L’accusa di pratiche monopolistiche formulata dal DoJ, infatti, stigmatizza le maggiori difficoltà dei concorrenti di Google nell’accedere ai dati degli utenti, e chiede che ai concorrenti sia data la possibilità di accedere a questi dati. Dall’impostazione delle accuse formulate dal DoJ, infatti, si deve dedurre che pure quando usiamo un browser diverso da Chrome, le richieste che formuliamo e l’elenco dei risultati finiscono nella disponibilità di chi controlla il software concorrente di Chrome, ma in misura molto ridotta. E si deve dedurre, inoltre, che la lamentela dei competitori di Alphabet sia di non avere accesso allo stesso giacimento di informazioni costruito e controllato dal monopolista.
Tuttavia, il DoJ non pone i diritti delle persone al centro del proprio interesse, che vengono trattate come se fossero un oggetto inanimato del quale decidere il proprietario.
Da un lato questo è comprensibile perché l’oggetto della controversia è la libertà di accesso al mercato. Dall’altro lato, è anche vero che la causa riguarda, innanzi tutto, la trasformazione dei dati personali in oggetto di appropriabilità e, quindi, la mercificazione dei diritti.
L’assenza colpevole della UE e dei garanti dei dati personali
Sarebbe stato, quindi, doveroso o quantomeno opportuno chiedere agli utenti che cosa ne pensano del recitare la classica parte del pesce rosso nell’altrettanto classica boccia di vetro o —meglio ancora— essere testimoni di un deciso intervento della UE e delle autorità nazionali per la protezione dei dati europee.
Queste, forti dei poteri extraterritoriali previsti dal regolamento sulla protezione dei dati personali potrebbero chiedere di conoscere esattamente cosa succede nei meandri del sistemi operativi che fanno funzionare computer e smart-device, invece di trastullarsi con i contenuti di interminabili, illeggibili e dunque inutili “informative sul trattamento dei dati”.
Tuttavia, è abbastanza improbabile che assisteremo a un intervento di questo genere.
Se fino a qui, quando la situazione geopolitica non era così problematica, nulla o quasi è stato fatto, non è pensabile, oggi, di attaccare Big Tech sugli aspetti strategici delle proprie tecnologie in nome dei “diritti dei cittadini” o continuare il percorso che porta a considerare i dati oggetto di valore economico sul quale pagare le tasse, visto il rischio di ritorsioni da parte degli USA se venisse toccato un settore strategico per i loro interessi.