La Stampa, 23 aprile 2025
Enrico Rava: "Ho la stessa passione dei 20 anni I giovani jazzisti sono bravissimi"
Enrico Rava, simbolo del jazz italiano nel mondo, apre oggi il Torino Jazz Festival con i Fearless Five (al Colosseo alle 21): il trombettista torinese racchiude nella sua musica gli elementi più innovativi che hanno segnato il jazz negli ultimi 60 anni.
Il jazz lo appassiona ancora?
«Come a 20 anni, anche se oggi suono meno bene. Amo i Fearless Five: do il massimo con loro. I viaggi, gli alberghi, studiare continuamente sono per me un dramma, ma l’ora e mezza sul palco mi gratifica della fatica. Ho la fortuna di tenere i corsi di musica d’insieme a Siena Jazz, arrivano giovani strepitosi con la mia stessa visione della musica, li scelgo per suonare con loro».
Gato Barbieri, Steve Lacy, Cecil Taylor: che ruolo hanno avuto nella sua vita di musicista?
«Affetti enormi. A Chivasso suonai con Barbieri che mi convinse a fare il professionista. A 22 anni lasciai Torino per Roma per suonare con lui: mi ha dato fiducia. Lacy mi ha portato a New York nel 1967 permettendomi di suonare con Marion Brown, Shepp, Bill Evans. Taylor era un mio idolo: l’ho conosciuto e mi ha chiamato a suonare per un lungo tour».
A 17 anni la svolta: 1956, il concerto di Miles Davis a Torino...
«Fin da bambino ascoltavo i 78 giri di mio fratello: Armstrong e Beiderbecke, li ascolto ancora. Con Mulligan e Chet Baker, lì ho iniziato a sentire Miles. Avevo tutta la discografia. Al Teatro Nuovo era con Lester Young, pronto a passare una serata meravigliosa, ma è stata ben al di là delle mie aspettative. Un carisma pazzesco: lì decisi di comprare una tromba».
Ci tolga una curiosità: cos’è “Al gir dal bughi” di cui spesso parla?
«Il giro del boogie in dialetto piemontese. Quando ho conosciuto Dino Piana ero un maldestro dilettante. La domenica si andava dagli ex allievi del San Giuseppe per fare una jam in cantina. Lui era timidissimo, lo aveva convinto il fratello che gli portava il trombone avvolto in una carta di giornale. A un certo punto il pianista gli fa sentire cosa volevamo suonare, lui si rasserena e esclama: “ma è al gir dal bughi!”. Suonò un solo impressionante: era Dino. Amico fraterno, ci sentivamo tutti i giorni finché è vissuto, consolandoci per il labbro che con la vecchiaia non tiene l’imboccatura. Dopo anni suonava la mia musica e ci entrava subito».
Ha perso mai un treno?
«Uno solo, importantissimo: mi chiamò Ornette Coleman a prendere il posto di Don Cherry. Feci le prove ma non ero soddisfatto e non me la sono sentita, era il 1969. Non mi sono fatto più trovare. Sarebbe stata un’esperienza fantastica perché adoravo Coleman».
Il jazz è tornato di nicchia?
«No. Tre mesi fa la rivista New York Jazz Record affermava che l’Italia dopo gli Usa ha i migliori musicisti al mondo. Bosso, Fresu, Boltro, Falzone per citare i trombettisti, fanno paura. Negli anni 70 si andava ai mega concerti, ma dopo che Santana rifiutò di suonare in Italia per gli autoriduttori che volevano i concerti gratis, nacque Umbria Jazz: nel 1975 col mio gruppo americano abbiamo suonato a Terni davanti a 60 mila persone; il Pci si rese conto che per gli orfani del rock, il jazz attirava i giovani, così alle Feste dell’Unità ingaggiarono non solo me, ma Mingus, Coleman, Cherry; poi è finita la pacchia, ma il pubblico era aumentato, soprattutto il livello dei giovani musicisti. Quando ero ragazzo c’era un concerto all’anno e solo cantine e club dove ci si trovava come i carbonari».