Avvenire, 23 aprile 2025
Dante come un rapper in classe a Tor Bella Monaca
Cosa c’entra il sommo Poeta con una scuola secondaria di primo grado ai margini della Capitale? È una domanda che il professor Emiliano Sbaraglia, docente di materie letterarie e tra i fondatori dell’associazione di scrittori “Piccoli Maestri”, si sente fare da colleghi, genitori e dai ragazzi stessi, in classe. Con risposte ed esiti sorprendenti, raccontati – rispettando sempre l’anonimato – in “Leggere Dante a Tor Bella Monaca”, pubblicato da e/o (pagine 160, €17,00) e dedicato proprio «agli alunni e le alunne della scuola ex “Ilaria Alpi”». Anzitutto, il contesto non facile (ma quale aula oggi lo è?) e segnato da pesanti pregiudizi che tendono a smorzare ogni speranza: «La periferia viene percepita come luogo di confine, catalogata alla voce “frontiera”, dove l’emarginazione si abitua a fare i conti con il senso di abbandono, la consapevolezza di essere dimenticati, rimossi da una società cosiddetta civile, rappresentata da istituzioni che si fanno vedere quando conviene, non quando serve».
In questo scenario il ruolo dell’insegnante risulta cruciale, perché «il cattivo esempio degli adulti è talmente presente e ingombrante che combatterlo appare una lunga ed estenuante battaglia persa in partenza». Formazione e aggiornamento «dovrebbero svolgersi fuori dalle aule; poi sta al docente trasformare le esperienze vissute in “competenze” da spendere durante il percorso didattico, come normativa ministeriale richiede. Qui i crediti si ottengono in base a come ti muovi, a quello che dici, e se a quello che dici segue quello che fai. Qui, soprattutto, ci si deve guadagnare il rispetto delle persone: studenti, famiglie, operatori e colleghi, in rigoroso ordine di importanza. E per rispetto s’intende credibilità, fiducia, riconoscimento (non riconoscenza) soprattutto della propria professione». Un lavoro – puntualizza Sbaraglia – «che si sceglie, così come si sceglie questo territorio». E riferisce che alcuni colleghi «prima piangono, e chiedono il trasferimento sull’onda emotiva dell’impatto iniziale; poi, arrivati al termine dell’anno scolastico, continuano a piangere ma di gioia, perché non se ne vogliono più andare, e la loro richiesta di trasferirsi per fortuna è stata rifiutata».
Si creano legami con le famiglie, a motivo di un’analoga «richiesta d’affetto che si respira dentro la classe, composta da alunni e alunne alla disperata ricerca di figure di riferimento, di qualcosa o qualcuno su cui poter contare, a cui potersi affidare nei momenti difficili» che l’inferno dantesco sembra evocare. E se «bisogna prima di tutto imparare a leggere e scrivere», «perché non provare a farlo anche con Dante, con le origini della nostra lingua?». L’esperimento funziona: «Dante è un numero uno. Anzi, un numero dieci. Lui è il fuoriclasse della lingua italiana, il campione della letteratura, campione più di Totti». La contesa fra guelfi e ghibellini somiglia per gli alunni «ai romanisti e i laziali, cioè che sono della stessa città, però uno sta da una parte, uno dall’altra». E poi l’accostamento fra letteratura e rap, perché «i maestri della rima siamo noi come ogni rapper che si rispetti, anche Dante non è che fosse un tipo così tranquillo, tutto casa e chiesa, era uno che insieme alla sua cricca di amici spesso organizzava quelle che nel linguaggio dei rapper possiamo definire sfide di free-style, delle vere e proprie “rap-battle” ante litteram». Alla fine dell’anno i ragazzi si chiedono: «Noi c’annamo in Paradiso?». «Non lo so... Bisogna avere le chiavi... E si deve trovare la strada giusta. Dante direbbe la diritta via».