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 2025  aprile 23 Mercoledì calendario

In viaggio verso Leopoli insieme a Viktor il soldato buono che non perde la fiducia

Che Viktor sia un omaccione buono è lampante fin dalle prime battute che ci scambiamo in treno. Di ritorno dal fronte nord-est ucraino e diretto a Leopoli, il soldato semplice Viktor era in trepidante attesa di re-incontrare la famiglia dopo un anno di assenza da casa. Cinquant’anni compiuti da poco, una moglie, tre figli, di cui uno con autismo, una storia di fuga dal Donbass, dove le forze di occupazione avevano cacciato gli oppositori nel 2015.
Avrebbe potuto evitare l’arruolamento perché la legge marziale prevede un’esenzione per i padri di ragazzi disabili, ma aveva fatto un patto con la moglie: «Se mi chiamano vado, devo fare la mia parte». Per poco meno di due anni, i reclutatori si erano dimenticati di lui che continuava a lavorare al tornio ed a badare alla famiglia. Poi, un giorno, al rientro dal lavoro, gli ufficiali sono saliti sul pullman su cui viaggiava per distribuire a tutti gli uomini adulti la convocazione a presentarsi il giorno dopo all’ufficio matricole. Viktor mantiene la promessa fatta in silenzio alla patria: torna a casa e comunica alla famiglia che il giorno dopo andrà ad arruolarsi. La moglie lo contesta, ma poi appoggia a malincuore la sua scelta. Si presenta puntuale all’appuntamento, veste la mimetica, lo portano in un campo di addestramento. Gli danno mille proiettili da sparare contro bersagli diversi. Quando finiscono gli dicono che è «pronto». In pochi giorni è di fronte ai russi. Si è sempre difeso bene. Un ragionamento lo ha aiutato a sopravvivere: «So che dall’altra parte ci possono essere delle brave persone a cui sto sparando – chiarisce ad alta voce e senza rabbia – ma da quest’altra c’è la mia famiglia». Pensiero esternato da un velo di amarezza viva negli occhi e smorfie della bocca abitata da pochi denti. Quando al fronte non si spara, Viktor passa il tempo a fotografare farfalle, fiori, campi verdi e gialli.
Nei primi mesi era diventato un grande amico dei suoi commilitoni, ma con il passare del tempo ha smesso di chiedere i lori nomi e le loro storie perché troppi sono quelli morti sul campo che ha dovuto salutare. Ora vive in solidarietà ma alla giornata, non vuole sapere nulla di loro per non soffrire ancora quando ci si lascia all’improvviso. Ci spiega che anche i suoi compagni sono quasi tutti tra i quaranta ed i cinquantacinque anni. Così, incalzato dal quesito spontaneo “ma non dovrebbe essere un esercito giovane?”, risponde fulmineo: «Noi combattiamo perché i giovani ucraini abbiano un futuro di libertà, se questi muoiono in battaglia cosa combattiamo a fare?». Poi aggiunge una considerazione paternalistica, dolce e lucida al tempo stesso: «i ragazzi di oggi non sono abituati a tenere i nervi saldi come noi adulti, meglio che ci siamo noi sul campo». Tetyana, una delle colonne del Movimento Europeo di Azione Nonviolenta, con noi sul vagone, chiede a Viktor cosa ne pensa del fatto che molti veterani feriti, tornati a vivere nelle loro città, lamentano di non essere trattati con il dovuto rispetto dalle loro comunità, ed in particolare proprio dai giovani. Qui, arriva un’altra sentenza di saggezza: «Io non mi lamenterei, loro non sanno cosa abbiamo vissuto al fronte, noi stiamo combattendo proprio perché loro fossero liberi, anche di sbagliare e di non sapere cosa accade in guerra. Loro devono pensare a costruire il futuro». I racconti degli scontri sono macabri: «I russi non vengono a ritirare i corpi dei loro soldati – annota – ed i cani randagi stanno diventando obesi a furia di mangiare cadaveri». Passiamo circa 20 ore insieme da Kharkiv a Lviv. Ci chiede di cantare ma lui non lo fa: ha solo bisogno di ascoltare. All’inizio del viaggio aveva esordito così: «Posso stare un po’ con voi? È troppo tempo che non parlo con qualcuno». Quando scende dal treno, ci saluta mentre abbraccia la sua famiglia. La sera stessa, ci manderà una foto della loro a cena, a casa, sbarbato, pulito, riconoscente del pezzo di vita vissuto insieme.
Avevamo provato a sollecitare un suo commento all’idea che i russi, alla fine, possano tenersi il territorio che hanno occupato con la forza ma, niente: «Non ci voglio pensare», ci ha risposto. Viktor, come noi, come Gesù in croce, non sa dare una motivazione a un’ingiustizia del genere, che è consapevole che potrebbe compiersi in un prossimo futuro. Dalle sue parole è chiaro che non pensa affatto di essere stato crocifisso invano. C’è qualcosa in Viktor che supera l’ingiustizia terrena, c’è uno spirito che andrà oltre la forza di chi vincerà sul terreno dello scontro armato. Per questo ho ripensato subito a lui quando ho letto dell’ultimatum di Trump («o vi accordate o abbandono l’Ucraina») pronunciato nei giorni del triduo pasquale: quell’uomo così potente, che minaccia di lavarsene le mani, non immagina nemmeno che c’è un uomo buono che non ha mai creduto nella forza dei potenti e che, non per questo, ha smesso di avere speranza.