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 2025  aprile 23 Mercoledì calendario

Prove di diplomazia ai funerali di sabato L’“effetto Francesco”

Sotto la pioggia di Soweto, il 10 dicembre 2013, il mondo osserva una storica stretta di mano tra il presidente americano Barack Obama e il leader cubano Raúl Castro: quel gesto inaspettato diventerà l’immagine simbolo del primo disgelo tra Washington e L’Avana dopo mezzo secolo. La normalizzazione tra i due Paesi sarà annunciata ufficialmente solo dodici mesi più tardi, ma il seme era stato piantato in quell’occasione non preventivata: le esequie del leader sudafricano Nelson Mandela. Diciotto anni prima, il 6 novembre 1995, alla sepoltura del primo ministro israeliano Yitzhak Rabin, ucciso da un estremista ebreo, la partecipazione del re Hussein di Giordania e del presidente egiziano Hosni Mubarak, leader arabi per decenni nemici di Israele, rappresentò un atto di coraggio politico e umano che rese, almeno per un breve periodo, più vicina la pace in Medio Oriente.
Durante il solenne addio a Papa Giovanni Paolo II, l’8 aprile 2005, il presidente statunitense George W. Bush e il presidente francese Jacques Chirac, nonostante le tensioni precedenti dovute all’intervento militare in Iraq non condiviso da Parigi, mostrarono pubblicamente gesti di rispetto reciproco che favorirono un “riavvicinamento” fra i due Paesi. Una fotografia scattata dopo la Messa mostrava lo stesso Chirac baciare la mano della Segretaria di Stato americana Condoleezza Rice, mentre Bush osserva la scena con un sorriso.
La chiamano apertamente diplomazia dei funerali, e quelli citati rappresentano alcuni degli esempi affiorati alle cronache, mentre altri colloqui riservati sono probabilmente rimasti sotto traccia, così come saluti e bisbigli davanti alle telecamere, ritenuti di prammatica, possono avere invece segnato le relazioni tra capi di Stato. Ovviamente, il primo dato è quello della partecipazione, il “chi c’è e chi manca” tipico di questi eventi, in cui il dolore per la personalità scomparsa si accompagna al fervore degli incontri e delle opportunità inaspettate di contatto.
Sarà così anche sabato mattina (e nelle ore precedenti e successive) in Piazza San Pietro e in tanti luoghi di Roma – ambasciate e alberghi – dove le centinaia di partecipanti provenienti da tutto il mondo faranno base. Il precedente più importante sono proprio le esequie di Giovanni Paolo II, per le quali il Vaticano si trasformò per un giorno nel centro simbolico del pianeta. Oltre 200 delegazioni ufficiali, capi di Stato e di governo, personalità religiose ed esponenti di tante culture convennero per rendere omaggio al pontefice del dialogo interreligioso e della fine della Guerra Fredda. Fu forse il più imponente raduno di alti rappresentanti mai avvenuto fino ad allora (le assemblee generali dell’Onu vedono spesso una staffetta tra leader in più giornate), con il presidente Usa in carica accompagnato da due suoi predecessori (circostanza senza precedenti) e persino il presidente iraniano Mohammad Khatami.
I corridoi diventano spazio di incontri informali, sorrisi misurati, saluti più o meno prolungati che assumono in alcuni casi forte valore simbolico. La presenza simultanea di leader che difficilmente siederebbero allo stesso tavolo conferisce in tal modo ai funerali una funzione diplomatica. È avvenuto anche di recente, il 19 settembre 2022, per l’omaggio finale a Elisabetta II, l’ultima grande regina del Novecento e guida della Chiesa anglicana, condotta alla sepoltura davanti a 500 tra governanti, reali, ambasciatori e delegati delle religioni planetarie.
I giornalisti e gli osservatori professionali scrutano ogni dettaglio: chi siede accanto a chi, chi evita chi, chi si ferma a parlare con chi. La diplomazia del lutto è fatta di gesti misurati, presenze che valgono più di mille dichiarazioni, attenzioni reciproche che possono contribuire a creare nuovi equilibri. In un momento in cui erano altissime le tensioni globali – tra Russia e Occidente, tra Cina e Stati Uniti –, spiccava l’assenza di Vladimir Putin. La morte della Regina non ha cambiato la politica internazionale, ma ha offerto un rituale di coesione, un’occasione per rimarcare le dinamiche globali. È quello che accadrà ai funerali di Francesco, uomo di pace quanto nessuno altro in questi anni. Non vi saranno a salutarlo due dei protagonisti delle guerre in corso per la cui risoluzione il Papa si è speso senza risparmio. Il presidente russo e il premier israeliano Benjamin Netanyahu hanno già comunicato il loro forfait. Entrambi sono inseguiti da un mandato di cattura della Corte penale internazionale dell’Aja. Ma la verità è che non hanno mai dato seguito concreto gli inviti e agli sforzi diplomatici della Santa Sede.
Siederanno nelle prime file Donald Trump e Volodymyr Zelensky (ieri il presidente ucraino ha espresso il desiderio di un faccia a faccia con il collega Usa «in Vaticano»), Ursula von der Leyen e altri esponenti di Paesi colpiti dai dazi americani. Si aspetta con interesse di capire il livello della delegazione cinese. Per tutti, un’opportunità di (ri)allacciare rapporti o promettersi ulteriori scambi (e non è un caso se ieri, da Bruxelles, è stata lasciata aperta la possibilità che avvengano incontri bilaterali). Quello che il vescovo di Roma auspicava: parlarsi, provare a superare i contrasti, per poi fermare le armi e ridare pace e speranza ai popoli. Perché i veri protagonisti dell’addio a Francesco saranno i semplici fedeli, quelli che gli stavano nel cuore. La diplomazia – pensava il Papa – non dovrebbe servire ai giochi di potere delle nazioni, bensì a migliorare la vita dei più poveri. Il soffio dello Spirito che scompaginò l’Evangeliario sulla bara di Giovanni Paolo II potrebbe aprire qualche cuore anche sabato prossimo.