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 2025  aprile 22 Martedì calendario

Intervista a Dacia Maraini

Il primo dei dieci comandamenti dettato a Mosè sul Monte Sinai dice: «Non avrai altro Dio all’infuori di me». Da questa voce imperiosa, ultimativa, maschile, come è la voce di Dio in tutto il Decalogo, Dacia Maraini ne fa nascere una fluida, dubitativa, giocherellona e sfrontata, la voce di una bambina protagonista di una favola, (La bambina che vola, Rizzoli), che fa parte di una collana in cui dieci scrittrici riscrivono un comandamento.
A un certo punto, la bambina prende a comparire e far visita a una intagliatrice, Sara, che vive sola dopo essere stata abbandonata dal marito per una compagna più giovane. La bambina ha il collo lungo, le ali sulla schiena, la pelle quasi trasparente, e a Sara racconta episodi della Bibbia come fossero storie della buonanotte: le rivolta, le desacralizza, le interroga, le mima.
Maraini disinnesca l’imperio e dà alle Sacre Scritture il tono allegro e rivoltoso della giovinezza, scrivendo una storia che è un sogno, e ci fa intravedere come sarebbe stata la fede, se a raccontarla, costruirla e tramandarla fossero state le donne.
Maraini, lei crede in Dio?
«Sarei contenta se esistesse: renderebbe tutto più semplice».
È un sì con riserva?
«La prenda come una domanda alla quale non so rispondere. La mia scrittura è da sempre fatta di domande, non di risposte».
Anche la fede è fatta di domande.
«La fede è fatta di mistero e richiede di accettarlo anziché indagarlo. È un sentimento, una speciale forma d’amore».
Lei lo prova?
«No, e invidio chi ci riesce, perché offre una grande consolazione: la fede sistema le cose, dice che tutto ha un ordine ed è spiegabile; che Dio ci osserva e controlla quello che facciamo e come lo facciamo; pone il male fuori di noi. E tutto questo lo inscrive all’interno di una spiegazione limpida, chiara e rassicurante, ma poco credibile».
È così importante la credibilità?
«No, però quello che studiamo del nostro mondo e quello che la scienza ci aiuta a ricostruire della nostra vita, ci danno la misura di quanto la realtà sia troppo complessa per essere stata originata da un dio da un momento all’altro. D’altra parte, di come si sia originato il mondo non sappiamo niente ed è per questo che non mi considero propriamente atea e non riesco a dire con perentorietà che Dio non esiste: resto aperta al mistero, perché è dal mistero che nasciamo tutti, e continuo a farmi delle domande».
È mai stata cristiana?
«Da bambina, quando vivevo in collegio, a Firenze, quindi più o meno per tre anni. Avevo una Madonna sul banco e un crocifisso sulla testata del letto: la sera gli parlavo».
E poi ha smesso?
«Non del tutto».
Qual è stata la forza speciale di Papa Francesco?
«Emozionare. Ci riusciva perché non parlava il linguaggio ecclesiale, ma quello casalingo e confidenziale. Non usare il burocratese della chiesa è stata una precisa e felice scelta stilistica. Qualcuno lo considerava sciatto, invece per me ha dato un segno di grande profondità».
Una volta ha detto, citando il poeta T.S. Eliot, che la crisi religiosa moderna è dovuta a una diffusa «incapacità emotiva».
«Sì, ora c’è una diffusa incapacità emotiva, ma credo sia dovuta a una confusione culturale momentanea».
Come si può rimediare?
«Puntando sulla memoria e sulla riflessione, perché entrambe aiutano ad approfondire il mondo emotivo».
È ancora vero che non possiamo non dirci cristiani?
«Certo, non possiamo. Siamo culturalmente cristiani e alcuni dei nostri valori migliori provengono dall’insegnamento di Cristo: perdonare, porgere l’altra guancia, amare il prossimo».
Il più difficile, amare il prossimo.
«Il più importante».
Però è un comandamento, e questo significa che ci vuole fede per rispettarlo, e forza.
«Certo, perché fare il bene non è naturale, è una nostra invenzione e per onorarla servono motivi, spinte, valori condivisi».
Ne vale sempre la pena?
«È una domanda che non ci si pone neppure quando si ama l’essere umano, perché farlo è un dovere di comportamento, fa parte dell’essere bravi cittadini».
È più facile amare gli altri per chi crede in Dio?
«Amare gli altri sia tutt’altro che difficile, visto che ci porta a dare il nostro meglio. La fede è amore ma l’amore per la sacralità dell’essere umano, una sacralità intesa non in senso religioso, esiste anche tra laici e agnostici. Per me l’essere umano non va umiliato, offeso, toccato, picchiato, imprigionato, ucciso e questa è la mia fede, un altro tipo d’amore per il mondo che è una forma di protezione dalla distruttività che pure ci appartiene».
Perché il comandamento ispiratore della sua favola è “Non avrai altro Dio all’infuori di me”?
«Perché l’unicità della sacralità è un tema importantissimo. Ci sono diverse religioni e altrettante divinità: è mai possibile che soltanto una sia quella giusta? È una domanda importante, e mette in discussione la Storia: io l’ ho affidata a una bambina».
Sono tutte femmine in questa storia.
«Da sempre mi interessa far parlare le donne, visto che per secoli la letteratura ha dato voce e rappresentanza quasi solo agli uomini, creati da scrittori che si identificavano più facilmente in personaggi maschili. Non dico che sia stato sbagliato: è inevitabile, per chi scrive, identificarsi in ciò che gli è più prossimo. Personaggi femminili scritti da donne ne leggiamo da poco e a me interessano infinitamente di più».
Non la disturba la possessività di «Non avrai altro dio all’infuori di me»?
«Eccome. Ne ho scritto proprio per questo. L’amore non è un dovere e non si può imporre, così come non si può imporre Dio. Sono contraria a qualsiasi tipo di assolutismo, anche se celeste».
È per questo che, quando racconta Giuseppe e Maria, sottolinea la castità del loro amore come una forma di libertà?
«Sì, è un punto che ho molto a cuore. Il sesso è stato mitizzato, involgarito e reificato, e troppo spesso ha finito con il coincidere con la pornografia. E poi anche senza questi eccessi, credo sia sminuente credere che due persone si amino solo se fanno sesso: è un’idea consumistica, figlia di una cultura capitalista. Osservo con sgomento le guerre che conducono le coppie quando si separano: buttano via tutto appena il desiderio finisce, perché è stato soddisfatto. Allora, recuperare l’amore casto, quello cantato dalla letteratura provenzale o quello di Dante per Beatrice, è importante per raccontare che ci si può amare anche attraverso l’intesa e l’amicizia».
Nella Bibbia però c’è molto amore carnale.
«Certo. Nel Cantico dei Cantici, che riprende la tradizione araba di descrivere il corpo della donna amata, specialmente i seni e il ventre, come parte della bellezza del creato, c’è molto amore carnale. La Bibbia è fatta di molte cose e di molte voci, arriva da una tradizione arcaica che nel tempo è stata tramandata da persone diverse».
La misoginia che ha caratterizzato, da un certo punto in avanti, in cristianesimo, dove trova origine?
«Si tratta di uno dei molti tradimenti dei testi sacri. E, soprattutto, è un tradimento del messaggio di Cristo, che alle donne ha dato un’importanza rivoluzionaria: quando risorge, non ci sono uomini, ma tre donne alle quali lui affida un compito che nessuno prima aveva affidato, ed è quello della testimonianza. Dice loro: andate a dire agli apostoli che sono risorto».
Vede misoginia nella contrarietà dei cattolici all’aborto in nome dell’amore per la vita umana?
«Ho le idee molto chiare sull’aborto: sono le stesse che avevo negli anni Settanta: per me poter abortire non è una conquista. Se alle donne fosse stato permesso di decidere del proprio corpo e della propria capacità generativa, non avremmo dovuto lottare per garantire quella possibilità. L’aborto non ci sarebbe. L’aborto è la conseguenza di una mancata di libertà femminile nel poter esercitare una maternità responsabile. E penso che dobbiamo combattere per la legalizzazione dell’aborto proprio per eliminare l’aborto».
Cosa pensa della sentenza dell’Alta Corte britannica, secondo la quale solo il sesso biologico definisce una donna?
«Una sciocchezza. E per capirlo basta guardare la realtà, anziché parlare in astratto. Il mondo è pieno di persone che si sentono di un sesso diverso da quello assegnato alla nascita ed è a loro che si deve dare ascolto e fiducia»
Che impressione le ha fatto vedere tante femministe esultare?
«Mi ha ferita. Le persone transgender e transessuali conducono una vita difficile, dolorosa, i percorsi di transizione e affermazione di genere sono complessi e non capisco che diritto abbiamo di escluderle dalla comunità delle donne, che come tutte le comunità ha bisogno di allargarsi per avere uno sguardo più ampio. Senza le donne trans non avremmo visto molte ingiustizie e discriminazioni, quindi non avremmo combattuto per eliminarle. Penso con ammirazione e gratitudine a Vladimir Luxuria e al modo coraggioso e allegro che ha di battersi per i diritti delle donne».
Perché nella sua favola c’è un’intagliatrice?
«Perché il lavoro artigianale è quasi scomparso nel nostro tempo e desideravo uscire dal dominio, ormai incontrastato, dell’industria. E poi la mia intagliatrice assomiglia molto a una scrittrice: crea cose che prendono vita, come in Pinocchio. Quando scrivo, accade qualcosa di simile: creo personaggi astratti che, con il procedere della storia, vanno avanti in maniera sempre più autonoma, e sono io che devo seguirli. Non so mai dove mi porteranno, so solo che non ho altra scelta che farmi condurre dove vogliono. Così è successo anche stavolta, con questa bambina impertinente che non ci dice cose che non sappiamo, ma ci bombarda di domande».
È questo il senso della riscrittura?
«È il senso delle storie».