il Fatto Quotidiano, 22 aprile 2025
La dura vita da drummer: the Who
Il motore degli Who? Più facile mettere a punto la Ferrari di Hamilton. Ne sa qualcosa Zak Starkey, figlio di cotanto padre (Ringo), che dopo quasi tre decenni dietro i tamburi della band di Pete Townshend si è visto licenziare dopo una lite con il frontman Roger Daltrey. Il cantante, quello invecchiato peggio nel leggendario ensemble rock (oltre che sordastro ha denunciato gravi problemi alla vista) aveva accusato Zak di overplaying nelle serate di beneficenza del marzo scorso alla Royal Albert Hall. Quel suono metallico e sibilante (i piatti, il charleston) sommato al tambureggiare spavaldo di Starkey era divenuto un supplizio per il bizzoso Daltrey, che a 82 anni ha perso quel residuo di pazienza con cui si era sciroppato sei decenni di live con The Who. “Praticamente per cantare questo pezzo ho bisogno di capire la tonalità, ma sento solo la batteria che fa bum bum bum e non ci riesco”, aveva tuonato in scena. E una volta in camerino: “Fottiti Zak, hai esagerato, sei fuori”, più o meno le stesse parole che aveva gridato ere geologiche fa a Kenny Jones, un altro dei batteristi di lungo corso della squadra.
Starkey ci è rimasto male: è pur sempre uno dei drummer più tecnici e talentuosi della scena britannica, come ben sanno gli Oasis, che lo hanno più volte ingaggiato a cottimo per i tour. Prima che il bisticcio con gli Who si ricomponesse, il mortificato Starkey non aveva perso tempo ad annunciare piani con i Mantra of the Cosmos, il supergruppo a cui collabora anche Noel Gallagher. Ma alla vigilia di Pasqua, ecco la sorpresa. Townshend scrive sui social: “Zak is back! Nessuno gli ha chiesto di lasciare The Who, ci sono stati alcuni problemi di comunicazione, personali e privati che dovevano essere affrontati”, e ancora: “Mi assumo la responsabilità di questa confusione”. Certo, ora Starkey dovrà calibrare ogni colpo di bacchetta: il palco con quei due bizzosi gerontosauri è come il palchetto del Muppet Show. Però chi meglio di lui per affrontare la tournée che riporterà in Italia gli Who, il 20 luglio allo Stadio Euganeo di Padova e due giorni dopo al Parco della Musica di Milano? Nessuno dei supplenti – compreso il rodato Simon Phillips – garantirebbe lo stesso volume di fuoco del bistrattato rampollo Starr. Townshend, da navigato capitano d’industria, lo sa bene: a 80 anni gli tocca lavorare di fioretto per smussare le intemperanze del sodale di una vita, Daltrey. Questi non vuole saperne di nuovi album, forse a ragione. Ripete in continuazione al chitarrista: “Pete, che senso avrebbe? Il pubblico ha già quello che vuole da noi”. Cioè i capolavori di un altro secolo, Tommy, Quadrophenia, Who’s Next. Quindi, al massimo, ci si concede un altro giretto tra cavi, microfoni e amplificatori prima di rassegnarsi a fare gli umarell davanti ai cantieri. E i batteristi sappiano che non c’è più spazio per i fenomeni fracassoni. Gli Who hanno già dato, sopportando, e al tempo stesso amando, quel pazzo scatenato che fu Keith Moon. Uno entrato nella ditta nel 1964, dopo che a scuola era stato bollato come “un idiota” dai prof, il cui hobby prediletto era far esplodere tutto quel che gli capitava a tiro. Anzi, prima di diventare il batterista di una delle band decisive della storia rock’n’roll, lo scavezzacollo Keith si era già fatto notare on stage per aver sparato con una pistola da starter al cantante dei suoi Beachcombers. Una volta negli Who, e visto che Townshend si dilettava a sfasciare chitarre, Moon rincarava la dose, facendo letteralmente saltare in aria i tamburi. Una sera del ’67 esagerò: in diretta tv allo Smothers Brothers Show ficcò troppa polvere pirica dentro la cassa e il boom fu terrorizzante: i musicisti finirono bruciacchiati come in un cartoon e Townshend fu afflitto fin da quel momento dall’acufene vita natural durante. Un dinamitardo incontrollato, Keith: metteva candelotti nei cessi degli alberghi e addio ceramiche. Oppure buttava televisori dal decimo piano. O entrava con la Limousine dentro le piscine. Si faceva di Dexamyl, beveva a strafottere, ne combinava di ogni sorta. Con il bassista John Entwistle fece penzolare per i piedi il malcapitato Peter Frampton fuori da una finestra. Un’altra volta spuntò all’esterno del balcone di Jerry Garcia dei Grateful Dead: era rimasto fuori dalla sua camera e aveva fatto l’uomo ragno arrampicandosi nell’hotel.
Collassava spesso ai concerti degli Who, una volta non si riprese. Spazientito, Townshend chiese se tra il pubblico vi fosse un batterista. Si fece avanti un giovanotto terrorizzato, Scott Halpin, che se la cavò. Keith Moon morì nel ’78. Era stato un padrino per Starkey, al quale aveva regalato una batteria giocattolo quando il figlio di Ringo aveva otto anni. Anche solo per questa eredità spirituale è impossibile licenziare Zak.