repubblica.it, 19 aprile 2025
Generazione dupe. Esibire borse “fake” non provoca più vergogna, è un culto
Lo scorso gennaio, la catena di supermercati americana Walmart ha lanciato una borsa chiaramente ispirata alla Birkin di Hermès. Costo del modello, 70 dollari. Tempo qualche giorno, e la Wirkin, come l’hanno ribattezzata i fan, è esplosa sui social media, diventando uno status symbol con milioni di post dedicati e richieste di acquisto da tutto il mondo. C’è chi è rimasto spiazzato da una simile frenesia, non comprendendone l’origine, e chi invece l’ha salutato come il segno dell’inarrestabile avanzata dei dupe, le rivisitazioni a basso costo – create da piccoli marchi, catene low-cost e persino, per l’appunto, da supermercati – dei pezzi firmati più ambiti. Una tipologia di acquisto sempre più diffusa, tant’è vero che, ormai, chi riesce a scovare la migliore reinterpretazione per pochi euro delle creazioni più in voga, e care, è ammirato tanto quanto chi sfoggia gli originali.
A rendere l’avvento dei dupe rilevante è infatti l’accoglienza che il pubblico sta riservando loro. Ma se tre anni fa un’inchiesta del New York Magazine raccontava delle ricche newyorchesi che compravano in gran segreto Kelly e Birkin di Hermès false per puro divertimento, rimarcando come tutte stessero attente a non svelare il loro segreto, per non essere messe alla berlina (un po’ come ha fatto Daniela Santanchè con le Birkin regalate a Francesca Pascale); adesso, la ricca diva dei reality Bethenny Frankel discute su TikTok dei migliori dupe della Kelly di Hermès come se nulla fosse. In altre parole, il successo dei dupe ha segnato la scomparsa del senso di “vergogna” che un tempo accompagnava l’acquisto di un’imitazione: si comprava un falso per coprire l’onta del non potersi permettere un pezzo vero. Dunque era impensabile raccontare il proprio operato. Invece i dupe di oggi sono considerati un bonus da esibire con orgoglio: se è possibile recuperare una variante della borsa di stagione a un trentesimo del suo prezzo, perché non vantarsene?
Secondo la rivista W, nel 2024 il 31 per cento degli americani ha acquistato consapevolmente un dupe, e il 17 per cento si dice pronto a farlo pur avendo la disponibilità economica per comprare gli originali. Non sono una scelta di ripiego, ma una scelta, punto e basta. Che, per di più, è del tutto trasversale: ultimamente diversi influencer stanno segnalando ai loro follower gli ottimi dupe di Zara in vendita sul sito di ecommerce AliExpress. E un po’ fa sorridere, visto che il gigante spagnolo ha costruito la sua fortuna riprendendo i pezzi dei grandi brand a una frazione del loro prezzo. Insomma, un “chi la fa l’aspetti” da manuale.
«Altro non è che la democratizzazione del lusso, un meccanismo di cui si sono avvalse tutte le grandi case di moda», riflette Mauro Ferraresi, professore di sociologia della comunicazione allo Iulm di Milano e autore del volume Modamedia, Nuovi scenari comunicativi del fashion system (edito da Guerini Next). «Si sogna il capo couture di un brand, ma visto che non ce lo si può permettere si comprano le seconde linee, meno care. E se pure quelle dovessero essere troppo costose, si compra il profumo. E così, anche solo con cento euro, ci si sente parte di quel marchio. È un meccanismo tipico tra i più giovani, che di solito hanno mezzi economici ridotti. Ora questo modo di pensare è stato traslato sui dupe, il che spiega perché siano tanto popolari su TikTok, il social preferito dai ventenni». E in fondo questo ragionamento rivela anche perché i brand “rivisitati” siano restii ad adire alle vie legali.
«La democratizzazione è una forma di fidelizzazione dei consumatori e, in un certo senso, i dupe funzionano alla stessa maniera: chi li compra lo fa perché, si presuppone, è fan dell’originale. La speranza dei marchi è che in futuro compreranno gli assai più cari originali». In virtù di quest’aspettativa, i colossi del lusso vogliono evitare l’effetto Davide contro Golia. «Basta immaginare i loro plotoni di avvocati scagliarsi contro un piccolo marchio, colpevole di essersi ispirato a una loro creazione: l’effetto sul pubblico non sarebbe positivo. Il problema però, nasce quando chi produce quei dupe fa fortuna, diventando rilevante sul mercato».
Il che è ciò che sta accadendo. Esemplare il successo di Quince, e-store di moda, bellezza e lifestyle che promette “un’eleganza classica e senza tempo”, e che di fatto è un elenco infinito di dupe: si va da Birkenstock a The Row, Bottega Veneta, Repetto, ce n’è per tutti (ma per ora non consegna in Europa). È questo tipo di successo a impensierire le maison, tant’è vero che nelle ultime settimane sono partite le prime querele: Coach ha diffidato Shein dal vendere suoi dupe, mentre Louis Vuitton ha fatto causa all’americano Steve Madden per una borsa troppo simile a un suo modello. Una reazione comprensibile, ma che forse non cambierà granché. Perché nel loro ragionamento, i marchi non hanno considerato l’atteggiamento dei GenZ su questioni come diritto d’autore e proprietà intellettuale. Non è che i ventenni non si preoccupino abbastanza di certi temi, è che non li considerano nemmeno. «Sono una generazione digitale, abituata a vedere qualcosa online e ad appropriarsene per diffonderla, senza pensarci due volte», conferma Ferraresi. «Il concetto di copie e originali è sempre meno netto. L’idea di citare le fonti, risalire a chi ha detto o fatto qualcosa per primo, per loro è del tutto alieno: non ci sono differenze tra un’idea e le sue imitazioni, che sia un meme o una borsa». E infatti, diversi utenti di TikTok hanno già scavallato il limite tra citazione e copia bella e buona, raccontando con dovizia di particolari gli acquisti fatti sulle app cinesi dedicate alle imitazioni dei grandi brand a prezzi stracciati, con tanto di loghi, etichette e scatole firmate. Sono decine di migliaia i post e i tutorial che spiegano come assicurarsi i migliori falsi e non incappare in venditori disonesti. C’è da dire che quello che fanno è reato. Ma per loro non sembra essere un problema.