Tuttolibri, 19 aprile 2025
Eleganza e tragedia nel grande reportage della storia
C’è stato un tempo, negli anni Ottanta del secolo scorso, in cui Danilo Kiš era considerato insieme a Milan Kundera il maggior scrittore europeo e uno dei più squisiti artisti della parola scritta: veniva paragonato a Borges per via di certe sue fantasticherie sulle biblioteche e per la sua tendenza alla metafisica; a Babel’ e a Schulz per le sue origini ebraiche e per la densità estrema, vicina a quella della poesia, delle sue frasi; a Joyce per un certo sperimentalismo; a Nabokov per via dell’ossessione per lo stile. Assomigliava a molti, insomma, ma non era uguale a nessuno. Come scrisse Brodskij nella prefazione all’edizione americana di uno dei suoi capolavori, Una tomba per Boris Davidovi?, «Tutti abbiamo letto Babel’, Borges e Schulz, ma è stato Danilo Kiš a scrivere Giardino, cenere, non noi». Il che, a ben vedere, basterebbe per annoverarlo tra gli immortali.
Era nato nel 1935 a Subotica, in quella parte di Jugoslavia che oggi è Serbia. Il padre Eduard, ispettore ferroviario, aveva modificato in Kiš il cognome Kohn, che suonava troppo ebraico. Ma questo non lo salvò: nel 1944 fu rastrellato in Ungheria e deportato ad Auschwitz. Danilo e la sorella si salvarono perché erano battezzati.
Tutta la vita di Kiš è un continuo spostarsi per salvarsi dalla Storia: dopo la scomparsa del padre, la famiglia va in Montenegro, nella città natale della madre; la laurea in Letteratura Danilo la prende però a Belgrado, dove nel frattempo si è insediato un regime di segno opposto a quello nazista, e che ugualmente eserciterà su di lui una forma di oppressione; alla fine degli anni Settanta, quando è già uno scrittore affermato, Kiš si trasferisce con la moglie a Parigi, dove morirà di cancro nel 1989, tre settimane prima del crollo del Muro.
Autore tragico ed elegante, la sua parabola può forse essere racchiusa in quattro libri: gli autobiografici Giardino, cenere (1965; ancora Brodskij: «il miglior libro dell’Europa postbellica») e Clessidra (1972), opere in cui tra gli altri compare, con lo pseudonimo di Eduard Sam, il padre ferroviere – nel primo libro intento a preparare un orario ferroviario universale, nel secondo perso nell’incubo della persecuzione razziale; le storie di Una tomba per Boris Davidovi? (1976) e di Enciclopedia dei morti (1983), le prime ambientate in un’Europa-universo concentrazionario di stampo socialista, le seconde che mescolano Storia e fantastico come in un incubo borgesiano: l’enciclopedia del titolo è un’enorme archivio che contiene milioni di biografie di dimenticati – tutti coloro che non hanno meritato nemmeno un rigo in nessun libro. Quasi ogni cosa che Kiš ha scritto è a ben vedere una biografia: se è di un personaggio storico, l’ha trasfigurata fantasticandoci su; se è di un personaggio inventato, come Boris Davidovi?, che viene tormentato da un carnefice che gli vuole estorcere una falsa confessione, è legata a doppio filo alla Storia.
E questo vale anche per Salmo 44, il romanzo che scrisse nel 1960 e che Adelphi, colmando un vuoto di anni, ha pubblicato di recente. Scrivendolo, in qualche modo Kiš pagò un tributo alla memoria del padre: questo Salmo, infatti, è ambientato ad Auschwitz e fa tesoro di certe testimonianze di alcuni parenti che dai lager erano riusciti a tornare. È un’opera breve, che Kiš definitiva “reportage": lo spunto infatti non è autobiografico, ma è la lettura di un articolo in cui si racconta del ritorno ad Auschwitz di una coppia di sposi, che nel lager aveva avuto un bambino, anch’egli sopravvissuto. Questa coppia, nel libro, è composta da Maria e Jakub – lui, medico, costretto a collaborare con un alter ego del dottor Mengele, lei che, nella baracca, in compagnia dell’amica Jeanne si prende cura del figlioletto in attesa che giunga il via libera per la fuga. È l’inverno del ‘44, sulla Germania e sul sistema-campi incombe la fine e tutti, vittime e carnefici, la presentono. Su questa attesa è costruito il romanzo, opera divagante che racconta le vite dei personaggi prima dell’internamento e certi episodi allucinati della prigionia. Kiš non lo amava: lo aveva scritto rifuggendo dal patetismo, e tuttavia in alcuni passaggi il libro era troppo esplicito – il suo difetto principale, disse, era la «fatale mancanza di distacco ironico – l’elemento che più tardi diventerà parte integrante del mio procedimento letterario» e che gli permetterà di parlare dell’orrore della Storia con una lingua elegante eppure non di maniera. Non lo rinnegò però: era il primo di una serie di libri il cui tema è la violenza e lo sterminio, e dunque meritava un posto nella sua opera.
È un libro giovane, radicale, bellissimo. Ascoltatene la voce, nelle parole scelte dalla traduttrice Manuela Orazi: Maria, Jeanne e il piccolo sono fuori dal campo, fa freddo, è notte, e il bambino, definito un “animaletto” «piangeva nella densa oscurità della notte, e la sua voce si torceva come un rampicante, come il fusto di una strana pianta verde che emerge dalla cavità di un cranio, dalle ceneri di un fuoco, dai visceri di una carcassa, mentre da lontano gli rispondevano i cannoni che annunciavano il terribile amore dei popoli».