Tuttolibri, 19 aprile 2025
La regina queer di New York che deludeva le élite e si ritraeva nuda tra i fiori
C’è stato chi si è burlato del mito, la Gioconda, mettendole un paio di baffetti, e chi ha avuto il coraggio di definirla un “misero dipinto” che i francesi avrebbero fatto bene a venderlo a un americano. I due si conoscevano e si stimavano: il primo era, come sappiamo, un mito del Novecento, Marcel Duchamp; la seconda, un po’ meno nota, ma oggi non meno mitizzata dall’ambiente artistico d’Oltreoceano, era Florine Stettheimer, che Duchamp conobbe poco dopo essere arrivato a New York nel 1915, accompagnato da Albert Gleizes nel salotto delle “Stetties”, le sorelle Stettheimer, appartenenti a una ricca famiglia di ebrei tedeschi: Carrie, appassionata di décor, si dilettò per vent’anni con la Stettheimer Dollhouse, casa in miniatura per le bambole che arredò con opere d’artista (Duchamp realizzò in piccolo il Nudo che scende le scale); Ettie sognava invece di diventare scrittrice; e Florine esplorò nell’arte, nel design e nel teatro soluzioni all’avanguardia.
Se si leggono le note biografiche e critiche su Florine che Eloisa Morra, critica letteraria e docente all’Università di Toronto, ha distillato in un saggio evocativo, che prende titolo dal finale di una poesia dell’artista, Accendo la mia luce e divento me stessa. Florine Stettheimer – a giorni in libreria per Electa nella preziosa collana “Oilà” dedicata a donne che hanno lasciato un segno nella cultura -, si resta colpiti dal carattere forte di questa artista che non si piegò al dominio maschile e volle inventare uno stile, paragonato da qualcuno a un ibrido di naïf, neorococò e modernismo, che non disdegna il sogno di marca surrealista ma su una memoria visiva che filtra la storia dell’arte che conobbe viaggiando l’Europa a lungo.
Strano destino quello di Florine, talento molteplice e geniale, indifferente agli stereotipi, dopo la morte nel 1944 a settantatré anni per un tumore, su di lei per molto tempo si spensero le luci. Eppure fu un nome di rilievo, tanto che il MoMA le dedicò una retrospettiva nel 1946, voluta proprio da Marcel Duchamp. Quel silenzio si spiega con la solita logica mercantile che fonda il successo o meno di un artista in un sistema che opera con criteri borsistici. Florine, infatti, non perse occasione di deludere le aspettative dei maschi americani dell’epoca, come Alfred Stieglitz, il fotografo-gallerista che con la moglie Georgia O’Keeffe promosse nuovi talenti. Quando le chiedevano di esporre la pittrice accettava, ma imponeva alle sue opere valori “fuori mercato”, nell’ordine di centinaia di migliaia di dollari. Alla domanda perché era così “autolesionista”, lei rispondeva che i suoi quadri le piacevano e preferiva tenerli. In realtà, era il suo modo di combattere una battaglia femminista, sia affermando l’indipendenza dal maschilismo che dominava l’ambiente, sia combattendo l’elitarismo del mondo da cui lei stessa proveniva: la madre, Rosetta Walter, era figlia di una ricchissima famiglia ebrea e amica dei Guggenheim e dei Solomon. Quella di Florine non era una posa, anzi: lasciò scritto alle sorelle che dopo la sua morte le opere non fossero vendute, ma donate a vari musei americani. Ciò spiega perché mentre lei era in vita, «vedere dal vivo i dipinti di Stettheimer fosse un privilegio per happy few», scrive Morra.
Il suo spirito indipendente si riflette nel coraggio con cui tra il 1915 e il 1916 si ritrae nuda mentre impugna un mazzo di fiori: un po’ seducente come Maya, un po’ castratrice come l’Olympia di Manet, ma col sorriso sulle labbra. Disincanto femminile che si riflette nel rapporto con Duchamp a cui dedicò vari dipinti, ispirandolo forse mentre inventava Rrose Sélavy, Alter Ego en travesti dove qualcuno ha visto l’ombra della stessa Florine.
Scrisse poesie, disperdendole in tanti foglietti, raccolte dopo la sua morte nel volume Crystal Flowers, tradotto anche in italiano. All’epoca del suo soggiorno in Europa, nel 1912 realizzò le scene di un’opera teatrale, un balletto dove compaiono Orfeo, Perseo e Afrodite, Orphée de Quat’z’Arts (di cui il MoMA conserva alcuni bozzetti grafici). La sua formazione comincia già a fine Ottocento; va dalla pittura italiana a quella moderna francese, Botticelli e Matisse, ma recupera modi che fondono alto e basso: come è stato osservato lo stile Camp “che a prima vista disorienta”, non sarebbe forse nato senza di lei.
Scoppia la Grande Guerra e le “Stetties” tornano in America, Florine non rivedrà più l’Europa. Le quattro donne Stettheimer si stabilirono ad Alwyn Court, sulla 58° strada, lussuoso palazzo dove fino al 1935 animeranno un salotto leggendario, arredato da Florine facendo largo uso di cellophane (divenne il suo marchio di fabbrica. Chi allora avrebbe mai pensato a quel materiale traslucido in un contesto d’arte?). Su tutti aleggiava lo spirito di Proust e della Recherche. Il salotto delle “Stetties” con Florine divenne, diremmo oggi, apertamente Queer.
Il suo più grande successo furono le scenografie e i costumi per l’opera teatrale Four Saints in Three Acts (1934), con libretto di Gertrude Stein che poneva al centro santa Teresa d’Avila. Opera d’arte totale, nata dall’idea del compositore Virgil Thompson, anche qui i fondali e i costumi abbondavano di cellophane, e l’ironia dominava.
Dopo essere caduta per un po’ nell’oblìo, il genio di Florine Stettheimer non passò inosservato a Andy Warhol. Del ciclo Cathedral paintings, quattro dipinti oggi esposti al Metropolitan, vero manifesto della sua pittura, Warhol afferra l’ironia, scrive Morra, con cui la pittrice «si era avvicinata alle forme della vita della Jazz Age». —