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 2025  aprile 19 Sabato calendario

Davanti a un tè in un club di Londra a parlar di Achmatova, pettegolezzi e metafisica

Articolo pubblicato su Tuttolibri il 30 settembre 1989
L’ho visto per la prima volta diciassette anni fa; lui aveva 63 anni e io 32. Avevo appena lasciato il Paese dove ero rimasto quei 32 anni ed ero al mio terzo giorno a Londra, dove non conoscevo nessuno.
Vivevo a St. John’s Wood, nella casa di Stephen Spender; sua moglie era venuta tre giorni prima all’aeroporto per ricevere W. H. Auden, arrivato da Vienna per partecipare al Festival internazionale di poesia che si teneva annualmente al Queen Elizabeth Hall. Ero sullo stesso aereo, per la stessa ragione. Poiché non sapevo dove andare a Londra, gli Spender si offrirono di ospitarmi. Al terzo giorno in quella casa, in una città dove non conoscevo nessuno, squillò il telefono e Natasha Spender gridò: «Joseph, è per lei». Ovviamente fui sorpreso. La mia sorpresa non era ancora diminuita quando all’apparecchio sentii il suono della mia madrelingua, parlata con estreme chiarezza e velocità, mai conosciute prima. La velocità del suono sfiorava quella della luce. Questi era Isaiah Berlin: mi invitava per un tè al suo club, l’Atheneum.
Accettai, anche se di tutte le mie nebbiose certezze sulla vita inglese, la più nebbiosa riguardava l’idea di club (l’ultimo riferimento l’avevo trovato nell’Eugene Onegin di Puskin). La signora Spender mi accompagnò in automobile fino a Pall Mall e prima che mi avesse depositato davanti a un imponente edificio in stile Regency, insicuro del mio inglese, le chiesi se poteva accompagnarmi all’interno. L’avrebbe fatto, rispose, peccato che le donne non fossero ammesse. Sorpreso anche di questo, aprii la porta e mi annunciai al portiere.
«Vorrei vedere Sir Isaiah Berlin», dissi, attribuendo l’espressione di incredulità controllata dei suoi occhi più all’accento che ai miei vestiti russi.
Mi trovavo ora nell’immenso interno – tutto mogano e pelle – della biblioteca del club. Negli angoli, un paio di membri anziani stavano affondati nelle loro alte poltrone, in stadi diversi di sogno indotto dalla lettura dei giornali. Dall’altra parte della stanza un uomo con un vestito tre pezzi mi salutava. Nella luce del sole la sua figura aveva qualcosa di Chaplin o di un pinguino.
Mi diressi verso di lui e ci stringemmo la mano. A parte la lingua russa, l’unica altra cosa che avevamo in comune era la conoscenza di quella grandiosa poetessa della lingua russa, Anna Achmatova, che a Berlin aveva dedicato uno splendido ciclo di poesie, Sweetbriar’s Bloom.
Occasione del ciclo era stata una visita di Berlin alla Achmatova a Mosca nel ’46, quando lui era segretario dell’ambasciata inglese. A parte le poesie, quell’incontro provocò anche l’ira di Stalin, il cui cono d’ombra ricoprì totalmente la vita della Achmatova per i successivi quindici anni.
Poiché in una di quelle poesie la Achmatova assumeva la personalità di Didone, rivolgendosi al visitatore come ad Enea, non fui troppo sorpreso quando gli udii fare questa prima affermazione: «Che cosa mi hai fatto? Enea! Enea! Ma che tipo di Enea sono io?». Effettivamente non gli somigliava e l’insieme di imbarazzo e orgoglio nella sua voce era genuino. (...)
Guardavo per la prima volta il suo viso. L’edizione tascabile de Il riccio e la volpe non aveva una fotografia dell’autore; la copia di Quattro saggi sulla libertà mi era giunta senza copertina, strappata per precauzione.
Era una faccia meravigliosa, pensai, qualcosa tra uno spaniel e una pernice, con grandi occhi castani pronti a volare e a cacciare. Mi trovavo a mio agio con la sua faccia, con il suo essere vecchia perché questa, da sola, escludeva ogni arroganza. Era anche la faccia di una vittima potenziale, e così mi sentii di colpo molto tranquillo.
Parlavamo russo, con grande sorpresa del personale in uniforme. La conversazione toccò naturalmente la Achmatova, poi domandai a Sir Isaiah come mi avesse trovato a Londra. La risposta mi fece tornare alla mente la copertina di quella edizione mutilata dei Saggi e mi vergognai. Mi sarei dovuto ricordare che quel libro era stato dedicato all’uomo che ora mi ospitava sotto il suo tetto. Stephen Spender era amico di Sir Isaiah dai giorni di Oxford. E così era anche per Wystan Auden, le cui Lettere a Lord Byron come i Saggi erano state le mie compagne tascabili di ogni giorno.
Di colpo mi resi conto di dover molto della mia salute mentale a uomini di una sola generazione, alla classe di Oxford degli Anni 30; io stesso ero in qualche modo un prodotto involontario della loro amicizia; loro passeggiavano nei libri altrui come facevano nelle loro camere al Corpus Christi o all’University College e queste stanze, alla fine, si erano rimpicciolite fino a diventare i tascabili di mia proprietà.
E poi erano i miei ospiti. Volevo sapere tutto, subito, su ognuno di loro. Le due cose più interessanti del mondo, secondo E. M. Cioran, sono pettegolezzi e metafisica. Si potrebbe aggiungere: hanno una struttura simile, perché da uno si può facilmente passare all’altro. E di questo si riempì il pomeriggio, a causa del genere di vita di quelli di cui chiedevo, grazie alla tenace memoria del mio ospite.
Lui mi fece nuovamente pensare alla Achmatova, anche lei possedeva questa incredibile capacità di trattenere tutto: date, dettagli topografici, nomi e dati personali, le loro circostanze familiari, cugini, nipoti, nuore, secondi e terzi matrimoni, da dove venivano mariti e mogli, le appartenenze ai partiti, quando e da chi erano stati pubblicati i loro libri, e, nel caso di una fine spiacevole, chi era stato a denunciarli.
No, l’uomo davanti a me non era Enea, perché Enea, credo, non ricordava nulla. E nemmeno la Achmatova poteva essere Didone, tale da essere distrutta in una tragedia o da morire nelle fiamme. Avesse permesso che le capitasse ciò, chi poteva scrivere le sue parole?
Tuttavia non potevo definire Sir Isaiah un filosofo, perché quella copia mutilata dei suoi Quattro saggi era più il risultato di una reazione viscerale contro un secolo atroce che un trattato filosofico. Sempre per questo non potevo nemmeno definirlo uno storico delle idee. Le sue parole sono sempre state per me un grido dalle viscere del mostro, non una richiesta di aiuto ma un’offerta di aiuto, una risposta normale di una mente impaurita dal presente e che non lo augura a nessuno in futuro. (...)
Ricordo che mentre avanzavo nel libro senza copertina mi fermavo spesso per esclamare: quanto è russo tutto ciò! E con ciò non intendevo solo la scelta degli argomenti, ma anche il modo in cui venivano trattati: il suo accumulare subordinate, le sue digressioni, le domande, le cadenze della prosa, che ricordavano l’eloquenza sardonica della migliore narrativa russa dell’Ottocento.
Naturalmente sapevo che l’uomo con cui ora stavo parlando all’Atheneum era nato a Riga, penso sia stata l’Achmatova a dirmelo. Sempre lei riteneva che fosse un amico stretto di Churchill, il quale, durante la guerra, leggeva con passione i dispacci di Berlin da Washington. (...)
Tuttavia ciò che leggevo non era «russo». E nemmeno il razionalismo occidentale sposato al sentimento d’Oriente, o la sintassi russa che appesantisce con le sue inflessioni la chiarezza inglese. Sembrava la più piena articolazione di un’unica mente, cosciente dei limiti imposti su di essa da ciascun linguaggio e certa del pericolo di tali limitazioni. Dove avevo esclamato «russo!», avrei dovuto dire «umano!». Lo stesso vale per i brani dove uno avrebbe potuto sospirare: «Com’è inglese!». La fusione di due culture? La riconciliazione dei loro valori conflittuali?
Forse ciò che qui poteva essere percepito come vagamente orientale era il concetto che la ragione non merita di essere così tanto venerata, il senso che la ragione è solo un’emozione articolata. Ecco perché la difesa di idee razionali può diventare una questione altamente emotiva.
Notai che il luogo dove eravamo sembrava decisamente “inglese”; vittoriano, per precisione. «Sicuro», replicò il mio ospite, con un sorriso. «È un’isola in un’isola. È ciò che resta dell’Inghilterra, un’idea, se vuole».
E, come incerto che io avessi compreso la sfumatura, aggiunse: «L’idea di Herzen su Londra. Manca solo la nebbia». No, né un filosofo né uno storico delle idee, non un critico letterario o un utopista, ma una mente autonoma catturata dalla gravità del mondo esterno. La parola, forse, sarebbe penseur, se non fosse per le immagini muscolari e di rannicchiamento ad essa associate, così fuori posto davanti a questa figura civilizzata, comodamente reclinata nella poltrona verde bottiglia dell’Atheneum, con l’Est e l’Ovest sincronizzati in lui.
La triste ironia di tutto ciò è – per quanto ne so – che nemmeno una riga di Berlin è stata ancora tradotta nella lingua del Paese che avrebbe più bisogno di quell’intelletto e che potrebbe guadagnare enormemente da questi scritti. Se non altro quella nazione potrebbe apprendere molto di più sulla propria storia intellettuale e allo stesso tempo sulle opzioni presenti di quanto si è mostrata capace fino a oggi. (...)
Naturalmente uno dice tutto ciò col beneficio dell’esperienza rafforzata da ciò che potei leggere di Berlin da allora. Tuttavia penso che 17 anni fa, con solo Il riccio e la volpe e Quattro saggi sulla libertà in mente, non avrei potuto reagire in modo diverso al loro autore.
Prima che il nostro tè all’Atheneum fosse finito, sapevo che le vite delle altre persone sono la specialità di quest’uomo; altrimenti, perché un baronetto inglese di 63 anni dovrebbe parlare con un poeta russo di 32 anni? Cosa potevo mai dirgli che lui, in un modo o in un altro, non sapesse già?
Eppure, penso che in quel caldo pomeriggio di luglio mi trovavo seduto di fronte a lui non solo perché il suo lavoro è la vita della mente, la vita delle idee.
Le idee nascono nelle persone, ovvio, ma possono anche essere raccolte dalle nuvole, dall’acqua, dagli alberi. Da una mela caduta. E al meglio potevo definirmi una mela caduta dall’albero della Achmatova. Penso che volesse conoscermi non per vedere cosa sapevo ma per quello che non sapevo – situazione in cui si troverà spesso, credo, accostato al resto del mondo.
Per dirla in modo meno stridente e autobiografico, con Berlin il mondo ottiene una scelta in più.
Questa scelta non consiste nel seguire le sue istruzioni, quanto nell’adottare i suoi schemi mentali. In ultima analisi, la nozione di pluralismo di Berlin non è un progetto ma un riflesso dell’onniscienza di questa sua mente unica, che davvero sembra essere più vecchia e più generosa di ciò che contempla. Questa onniscienza, in altre parole, è molto umana e perciò può e deve essere emulata e non solo applaudita o invidiata.
Più tardi, la stessa sera, seduti per cena nel seminterrato di casa Spender, Wystan chiese: «Be’ come è andata oggi con Isaiah?».
Stephen domandò subito: «E il suo russo è davvero buono?». Cominciai, nel mio inglese tortuoso, un lungo resoconto sulla nobiltà della pronuncia della vecchia Pietroburgo, sulla sua somiglianza con l’oxonian proprio di Stephen, e su come il vocabolario di Isaiah fosse privo di saporite aggiunte del periodo sovietico e come il suo idioma fosse così personale, quando Natasha Spender m’interruppe per dire: «Sì, ma parla il russo veloce come l’inglese?».
Guardai in faccia quelle tre persone che conoscevano Isaiah da prima che io fossi nato e mi domandai se era il caso di proseguire nella mia esegesi. Poi cambiai idea, in meglio. «Più veloce», risposi.