Tuttolibri, 19 aprile 2025
Camilleri, il teatro e quel provino insieme a Gassman
Alla metà degli anni quaranta del secolo scorso Andrea Camilleri era un giovane aspirante scrittore che dalla lontana Sicilia mandava poesie e racconti alle riviste culturali del Continente e partecipava ad agoni letterari, nella speranza di affermarsi e trovare il modo di sottrarsi all’insegnamento, unica carriera offerta, gli sembrava, a un intellettuale di provincia. Tra le frecce scagliate qua e là, una sua commedia vinse a Firenze un concorso teatrale. Il ventiduenne autore si recò trepidante alla premiazione, ma quando poi durante il viaggio di ritorno in treno rilesse a freddo il suo lavoro, lo trovò talmente derivativo e scadente, che lo buttò dal finestrino. E in sostanza per il teatro non avrebbe scritto mai più. Ma proprio il teatro si impossessò di lui in quella occasione. Un anno dopo il premio, il presidente della commissione che glielo aveva assegnato, il critico Silvio d’Amico, lo cercò per offrirgli una borsa di studio all’Accademia d’Arte Drammatica che allora dirigeva e che oggi porta il suo nome. Il nostro accettò di buon grado, era l’occasione per emanciparsi; si trasferì a Roma e diventò l’unico allievo del corso di regia, disciplina allora per l’Italia quasi nuova, che l’Accademia voleva promuovere. Il racconto dell’esame che dopotutto il candidato dovette sostenere è spassoso. Per il corso di regia si doveva sostenere anche una prova di recitazione, e il tapino, che non aveva preparato nulla, si trovò a improvvisare una scena a due col soccorso di un disponibile neo licenziato attore, che si chiamava Vittorio Gassman.
I due anni di studio praticamente in tête-à-tête con il docente, l’illustre Orazio Costa, tra i pionieri della regia in Italia, furono decisivi nella scoperta di quello che ormai Camilleri voleva fare nella vita, e cioè, appunto, il teatro – forse non proprio alla maniera del suo mentore, che amava un certo misticismo mentre il gusto di Camilleri andò subito nella direzione delle parole e di quello che rivelano delle persone. Anche se poi all’Accademia non si diplomò – fu espulso per infrazione alla rigida separazione tra allievi e allieve durante le trasferte – continuò il rapporto come collaboratore all’Enciclopedia dello Spettacolo, che sempre Silvio d’Amico dirigeva. Diversi anni dopo, quando lasciò l’incarico di insegnamento, Costa indicò proprio Camilleri come suo successore, e all’Accademia per decenni Camilleri formò legioni di registi e di attori. Fu un suo allievo degli anni ottanta, poi a sua volta regista, Giuseppe Dipasquale, a convincerlo a lasciargli adattare per il teatro molti dei romanzi che nel frattempo Camilleri aveva scritto... Ma stiamo anticipando.
Prima di prendere il posto di Costa, Camilleri era stato, per vari decenni, un interno Rai, assunto con regolare concorso. E lì si era occupato di iniziative connesse col teatro, tra cui la registrazione televisiva delle commedie di Eduardo. Aveva seguito da vicino l’adattamento dei romanzi di Simenon con l’ispettore Maigret, fondamentale per capire la struttura del giallo. Alla radio era stato tra i promotori della serie, oggi diventata leggendaria, delle Interviste Impossibili. E naturalmente aveva fatto il regista. Non solo in Rai; anche indipendentemente, con varie esperienze, non tutte di propria iniziativa, magari adattandosi alle circostanze del momento, senza formarsi un proprio stile – «Strehler mi considerava un regista di mezza tacca», avrebbe detto poi, scherzando. Rievocando quel lungo periodo, avrebbe anche detto che il teatro che gli stava veramente a cuore e nel quale si riconosceva era quello di Beckett, Adamov e Pirandello, dove la trama è la cosa che conta meno. Ma, ripetiamo, di commedie non ne scrisse più.
Amava le storie, aveva sempre amato inventarne e raccontarle. Le sue lezioni, dicono ex allievi, erano narrazioni affascinanti. In tarda età la popolarità lo avrebbe spinto a condividerle con un pubblico vasto, vedi l’indimenticabile monologo su Tiresia detto davanti a migliaia di spettatori nel teatro greco di Siracusa. Un altro monologo analogo, Caino, era in gestazione quando Camilleri morì. Ma insomma. Dopo avere lavorato, forse servilmente, se vogliamo, in tante maniere, a più di cinquant’anni e sentendo di non dover dimostrare più nulla a nessuno, Camilleri volle concedersi il lusso di parlare con la propria voce e non con quella di altri, come deve fare il regista. Ma scelse il romanzo e la novella, non il palcoscenico. Perché? Avrebbe cercato di spiegarlo, quando, diventato romanziere di fama mondiale, rifletté sul suo metodo di composizione. Che, disse, partiva spesso dai dialoghi, dal modo di esprimersi di un personaggio. «Per prima cosa lo faccio parlare, e poi, se ancora ne ho voglia... lo descrivo per come è fisicamente, come è vestito, quanti anni ha. Ma tutto ciò lo desumo da come ha parlato, da come si è presentato. Questa è un’azione assolutamente teatrale... Quindi io al teatro sono debitore dell’ottantacinque per cento della mia scrittura. Paradossalmente è proprio questo ottantacinque per cento che, chissà perché, mi impedisce di scrivere per il teatro. Penso che abbia altre regole e mi terrorizzo davanti all’idea di scrivere per il teatro».
Esistono altri grandi narratori altrettanto appassionati di teatro che scrissero solo romanzi e non commedie? Be’, uno sì, forse il più grande di tutti. Charles Dickens: attore dilettante, grande lettore-interprete dei propri testi, con un teatro vero e agibile in casa e un’attrice come amante segreta. Proprio come Camilleri, Dickens non scese mai in quel campo, ma diede via libera a chi voleva adattare le sue storie. Così grazie soprattutto al predetto Dipasquale, e spesso con la collaborazione magari non troppo esibita dell’autore, una serie soprattutto dei romanzi storici – Il birraio di Preston, La concessione del telefono, ecc., diteli voi – hanno avuto il loro momento sul palco. Di solito se la sono cavata benissimo.