Robinson, 20 aprile 2025
Costruire è erigere nuove chiese dedicate al mondo
La sua lunga carriera di architetto è segnata dal costante bisogno di misurarsi con il sacro. Credo che in questa ricerca si possa cogliere il rapporto complesso di Mario Botta con il Moderno: dallo spazio finito su cui egli progetta a quell’infinito che considera condizione inseparabile dall’idea stessa del costruire. Ha progettato e realizzato diverse chiese. La più recente è quella di San Rocco a Sambuceto, in provincia di Chieti, distante da Mendrisio, dove vive. Qui, in Svizzera, è il suo studio, la sua famiglia, le relazioni nate in un piccolo mondo ed estese a uno più grande che spazia oltre gli oceani, fin dove lo conducono incarichi e committenze. Ha compiuto 82 anni. Non avrebbe immaginato di doverli vivere sotto il segno della violenza e del male che uccide. Proprio sul tema delNon uccidereha realizzato nel 2023 un’installazione per il Maxxi di Roma con Emilio Isgrò.
A proposito di comandamenti, quando hai capito che la Bibbia è un testo speciale?
«Nell’adolescenza l’ho incrociata varie volte. Nella mia casa, in campagna, c’erano pochi libri ma la Bibbia non mancava. Poi col tempo, in modo irregolare, l’ho letta avvalendomi delle interpretazioni che nei secoli l’hanno arricchita. È un testo che appartiene alla nostra cultura e continua, anche nel presente, a essere attuale. Difficile perciò prescinderne».
Oltre a essere parte della nostra cultura è anche
fonte di ispirazione per la fede?
«Se mi stai chiedendo se sono credente, sarebbe fin troppo facile rispondere con un sì o con un no. La fede è questione molto più complessa. Da questo punto di vista preferisco definirmi più che credente, pensante».
Meglio la sobrietà del protestantesimo, ricordo che sei svizzero, o il rigoglio del cattolicesimo?
«Ritengo più appropriato definirmi svizzero-italiano.
Razionalmente sono debitore della cultura d’oltralpe ma affettivamente sono legato alla ricchezza mediterranea.
Quindi, sobrietà delle immagini nordiche da un lato e creatività dall’altro».
Sei in mezzo alle due religioni che tra scontri e conciliazioni hanno definito l’Europa.
«Le religioni cercano risposte oltre il finito. Ma si spingono troppo oltre per l’azione di un architetto che ogni giorno deve confrontarsi con la legge di gravità.
Disegnare chiese e realizzarle, come faccio da anni, è anche un modo di misurarmi con la spiritualità delle due religioni».
Non ritieni che la chiesa sia oggi diventato il luogo della dimenticanza?
«Non credo che questa forma di oblio valga per l’architetto. Se potessi scegliere, invece di supermercati, uffici, snodi stradali, costruirei solo edifici indirizzati al sacro. La povertà di spirito nella quale siamo oggi immersi sarebbe meno estesa se fossimo capaci di interpretare il disagio che provocano gli eccessi della modernità. Credo che la storia dell’arte e dell’architettura possano ancora insegnarci qualcosa».
Progettare chiese è quindi una forma di resistenza culturale?
«Sinceramente non lo so. Per me si tratta di un bisogno remoto che malgrado oggi sia sepolto può ancora riaffiorare ed essere soddisfatto da architetture capaci di diventare memorie del nostro essere uomini sulla terra».
Architetture che guardano soprattutto al passato.
«Perché no? Sento la necessità di riattualizzare il passato, di viverlo e proporlo come una sorta di “arcaicità” del nuovo che resista a un generico appello ai valori nostalgici. Temo che il Moderno, non sapendo più parlare all’uomo non sappia neppure accordarsi al passato. Il suo posto è stato preso da una pluralità di immagini offerte dal postmoderno che del passato ha una concezione caricaturale. Ma sono bastati pochi anni perché quelle immagini – ispirate alla società dei consumi e dello spettacolo – risultassero obsolete».
I maestri ai quali hai riconosciuto un ruolo fondamentale nella tua formazione, sono Carlo Scarpa, Le Corbusier, Louis Kahn.
«Scarpa seppe opporsi alle follie del moderno. Ho studiato con lui. L’eleganza del suo linguaggio architettonico coincideva perfettamente con il comportamento umano. Nutriva un vero culto per la matita. Voleva che i suoi studenti imparassero a temperarne la punta con il coltello».
Perché?
«Era un modo artigianale di avvicinarsi allo strumento per imparare a conoscerlo. Diceva: “Se non sai fare la punta alla matita non riuscirai nemmeno a disegnare”.
Quanto a Kahn, guardava al passato come a un amico. La storia era per lui fonte di ispirazione fuori da qualsivoglia ideologia. Diceva che l’architettura non esiste, c’è solo l’opera architettonica. Il massimo della concretezza e al tempo stesso della profondità».
E Le Corbusier?
«Il mio ricordo si lega al suo ultimo progetto del 1964: l’ospedale di Venezia. Le Corbusier – malgrado la stanchezza – accettò l’incarico come omaggio alla città che riteneva fosse un modello straordinario di integrazione. L’ospedale sarebbe stato parte di quell’umanesimo che distingueva Venezia da tutto il resto. Niente di gigantesco. Lo schema era semplice, perfino umile. Lo spazio andava pensato nel rispetto della vita dell’ammalato. C’è qualcosa di profetico in quegli schizzi che purtroppo non videro la realizzazione. Le Corbusier sarebbe morto nel 1965».
Cos’hanno in comune questi tre maestri?
«Sebbene i loro linguaggi siano differenti, sono uniti da “un’etica del fare”. Hanno saputo difendere nella e dalla modernità la loro vocazione poetica».
Sia Kahn che Le Corbusier hanno progettato e realizzato una chiesa. Sono stati di ispirazione?
«Sono stati per me una lezione di umiltà. Diversi altri grandi nomi dell’architettura – penso a Rudolf Schwarz e Emil Steffann – si sono confrontati con successo sul tema. La cappella a Ronchamp di Le Corbusier ha modificato l’orografia dell’intero paesaggio. Segno che quell’edificio esalta e intensifica l’aspetto spirituale del profilo montuoso circostante».
Sono delle eccezioni
«Così come un’eccezione è il sacro, sottoposto in questi decenni ai più convulsi tentativi di distruggerlo.
Un’eccezione è pur sempre un esempio per i nostri domani. I nomi che ho citato, il loro modo di lavorare mi hanno aiutato a capire che il sacro non è fuori ma insito nell’opera architettonica».
Non pensi che proprio l’arte sacra abbia conosciuto tra Otto e Novecento il punto più basso della sua storia?
«Concordo. L’architettura ecclesiale ha purtroppo riproposto in termini goffi e caricaturali modelli del passato o avanzato architetture bizzarre spesso inguardabili».
La casa di Dio può tollerare la bruttezza.
«Mi piace pensare che preferisca la bellezza. Del resto, realizzare il bello è un modo per vincere le tensioni, le angosce, le contraddizioni del vivere di ogni giorno.
Quando la prima volta a Mogno, sulle Alpi svizzere, nel 1986 – dopo che una valanga aveva distrutto la chiesetta del XVII secolo – disegnai la casa di Dio, la feci pensando alla casa dell’uomo. La casa di Dio non può che essere una parte dell’habitat, della città dove vive e opera l’uomo. Ci deve essere un’armonia. Condizione essa stessa per riscoprire la potenza della bellezza».
La “bellezza” è un’esperienza complessa di cui abbiamo perso il senso. Come fai a ritrovarla in architettura?
«Sapendo che la bellezza ci sfida sul piano del simbolico più che su quello della funzione. Ma non è un fatto deterministico o di pura decisione».
Ossia?
«Sono convinto che non sia l’architetto a scegliere i propri temi, al contrario sono i temi – attraverso un disegno apparentemente inafferrabile – ad interpellare l’architetto. Voglio dire che è la vita stessa che di volta in volta ci porta doni imprevisti».
Hai disegnato e realizzato una ventina di chiese in tutto. Cosa ti spinge verso questa forma di sacro?
«Se potessi progetterei solo chiese, mi mettono davanti a due componenti che amo: la luce e il silenzio. Aggiungo che per me il disegno di una chiesa è inseparabile dal ricordo di quando, bambino nel villaggio, vivevo la chiesa come il prolungamento della casa in cui abitavo».
Che posto era quello in cui sei nato?
«Una casa di campagna senza i confort delle case moderne. Direi povera da questo punto di vista. Ma ricca sotto l’aspetto della qualità della vita. Tutto si integrava perfettamente: il villaggio, la contrada, la chiesa, la piazza dove abitualmente giocavo da bambino. Quell’architettura di inizio secolo aveva materiali semplici e solidi».
Hai disegnato molte case?
«Soprattutto all’inizio. Credo che la casa debba esprimere un senso di protezione per chi la abita».
Cosa intendi per protezione?
«Un utero materno che ripari dalle tensioni del mondo, dal loro dilagare nevrotico. Nel pensare a una casa non mi interessa il lusso o i metri quadrati, ma il senso profondo dell’accoglienza. Insomma, uno spazio che sia amico. È il significato che io do alla parola abitare».
Nel tuo lavoro in che rapporto stanno il peso e la leggerezza?
«L’architettura risponde sempre alla legge di gravità. Per me gravità e leggerezza si oppongono. Solo dal loro confronto può nascere la bellezza».
In questi anni abbiamo esaltato la leggerezza.
«Trovo assurda la moda per cui è bello tutto ciò che è leggero».
È un richiamo polemico al valore dimenticato della terra?
«Il primo gesto che si manifesta in architettura non è mettere pietra su pietra, ma pietra su terra. È il passaggio dalla natura alla cultura. Un architetto non costruisce su un luogo, ma costruisce quel luogo, senza stravolgerlo, senza distruggerlo».
Imputi talvolta alla modernità la vocazione alla distruzione.
«La sua cultura e i suoi stili di vita ci stanno spingendo ai limiti dell’autodistruzione».
A che cosa pensi?
«Oggi alle immagini della guerra che abbiamo sotto gli occhi attraverso i media: Gaza e Ucraina per esempio. In quei luoghi oltraggiati vedo tutto il disprezzo per i valori, per il lavoro eseguito nelle strade, nelle case, nelle istituzioni. Sono immagini terribili che mi lasciano esterrefatto. In queste condizioni, non riesco proprio a rassegnarmi a invecchiare serenamente».
Nei posti dove vivi, in quella Svizzera che sembra congelata dalla tranquillità, non è difficile sentirsi protetti.
«Tu trovi? Anche qui giungono le immagini e il peso di questa prolungata crisi distruttiva».
Una Svizzera che protegge ma al tempo stesso soffoca.
«L’immagine più sorprendente e inquietante la diede una volta lo scrittore svizzero Friedrich Dürrenmatt. Descrisse questo paese come una prigione, dove i cittadini sono al contempo prigionieri e custodi. Era un discorso letterario venato da una buona dose di ironia. Ma ho pensato spesso al fatto che pur godendo di una condizione di vita straordinariamente migliore di tante altre, serpeggia da anni un malessere diffuso, una paura proiettata verso l’esterno che ci fa alzare barriere e muri in difesa dei nostri privilegi».
Da che cosa dipende?
«Non credo dal paese reale. Il fatto di essere al centro dell’Europa ha favorito una storia culturale che si è estesa oltre i nostri confini, arricchendosi dell’apporto di differenti gruppi etnici. Piuttosto è il paese politico che si è via via staccato da quei valori fondamentali votandosi all’immobilismo».
Sei nato e vivi in quale parte della Svizzera?
«Sono nato nel Canton Ticino, a Mendrisio, nel villaggio di Genestrerio. In quel piccolo territorio ho vissuto le emozioni più intense con l’occhio del bambino un po’ fragile. Una fragilità problematica che il mestiere di architetto ha saputo trasformare in forza. Io sono quella terra e sono la sua gente che è lì da secoli. Che cos’è allora il mio Ticino? Una vallata che dal Gottardo si protende verso Milano. Mi ha dato la lingua e la cultura italiana e la sua meravigliosa storia culturale. A tal punto che posso considerare artisti come Giotto o Piero della Francesca, o architetti come Borromini, vicini di casa senza arrossire».