Robinson, 20 aprile 2025
Intervista ad András Schiff
Negli Stati Uniti di Trump preferisce non suonare. Quindi lì ha cancellato tutti i suoi concerti. Perché laresistenza alla politica del presidente americano può passare anche dalla musica classica. «Non mi aspetto che qualcuno sia d’accordo con me, né mi interessa la contrarietà di altri. Questa è la mia opinione e la porto avanti a dispetto di qualsiasi cosa se ne pensi».
András Schiff parla con la consueta pacatezza. Soppesa ogni vocabolo del suo italiano rifinito, incisivo. Fa lo stesso quando siede alla tastiera: ragiona su quel che suona come un erudito conferenziere, postillando ogni frase musicale con intensità concettuale profonda e intensa. È un pianista d’altri tempi, Schiff, oggi cittadino britannico e sir, ultimo depositario dello spirito della Mitteleuropa spazzato via dalla Grande guerra – sebbene lui non sia nato che al principio degli anni ’50, nell’Ungheria comunista. Proprio l’aver conosciuto da vicino la dittatura, e l’esser cresciuto in una famiglia ebrea segnata dall’Olocausto, l’ha reso un dissidente ostinato di chi devia dalla civiltà democratica. Tra qualche giorno torna a suonare (e dirigere) in Italia, per la Società del Quartetto di Vicenza, nel festival “Omaggio a Palladio” da lui ideato ventisette stagioni fa al Teatro Olimpico. Quattro concerti dal primo al 4 maggio nei quali collabora con la Cappella Andrea Barca, la sua orchestra, e con altri solisti (tra cui il tenore Julian Prégardien) per proporre pagine sinfoniche e da camera, sacre e profane, di alcuni degli autori che più gli sono cari: Mozart, Schubert, Mendelssohn.
Maestro, perché ha annullato le date americane?
«Non voglio suonare dove un presidente violento, brutale – un criminale che dovrebbe stare in carcere – governa secondo la legge della giungla. Come europeo democratico, che ha vissuto per vent’anni a New York, mi sento insultato da uno che ha in spregio la democrazia».
Ma Trump è al secondo mandato. Come mai questa decisione solo ora?
«Perché si è fatto più estremista, dunque più pericoloso e, dato lo sbilanciamento globale verso governi autoritari, ha assunto una centralità inimmaginabile prima. Volgarità e aggressività del suo linguaggio ne mettono chiaramente a nudo gli sfrenati propositi politici.
E nessuno pare capace di arginarlo.
«Certo non l’Unione Europea, che punta all’aumento della spesa militare dimenticando che la sua superiorità, anche rispetto agli Stati Uniti, non può che essere d’ordine culturale, quale è sempre stata».
Cosa l’attendeva negli Usa?
«Una ventina di recital in autunno, più una settimana con la Philadelphia Orchestra e una, come pianista-direttore, con la New York Philharmonic».
Le istituzioni che dovevano ospitarla le avranno chiesto di ripensarci.
«Nemmeno una parola».
Trump non è il solo bullo su piazza. Con altri governi autoritari come la mette?
«Non considero nessuno più pericoloso di lui, poiché nemmeno la Cina, nemmeno Putin è così potente al mondo».
Nella sua Ungheria c’è Orbán.
«Ma non conta nulla fuori dai suoi confini».
In Europa alza la voce.
«Mi meraviglio che lo si tolleri ancora. La politica di Orbán, che profitta biecamente delle risorse comunitarie, dovrebbe far perdere al Paese il diritto di esserne parte».
Dall’Ungheria lei se ne è andato tanto tempo fa, e fanatici vicino al governo l’hanno minacciata di ritorsioni fisiche nel caso rientri.
«L’ultima volta ci sono stato nel 2010, per il funerale di mia madre. Poi ho sempre protestato da fuori, per come potevo. Ciononostante credo che Orbán non mi abbia mai sentito nominare. Si interessa solo di calcio».
L’Ungheria è sempre stata matrigna con la sua famiglia.
«I miei si sposarono dopo che la guerra ne aveva distrutto le vite precedenti. Mamma, che perse il primo marito in un campo in Ucraina a causa del tifo, anche lei era stata in un campo di lavoro, vicino a Vienna: il treno che doveva condurla ad Auschwitz a un certo momento aveva cambiato destinazione. Invece ad Auschwitz erano morti la prima moglie e il figlioletto di papà, ginecologo scampato alla deportazione».
Com’è stato crescere nell’Ungheria comunista?
«Sono nato nel 1953, anno della morte di Stalin. Prima era un inferno, ma durante la mia giovinezza, nonostante il grigiore generale, il comunismo non mostrava un volto troppo atroce. A cinque anni ha cominciato con il piano. «Non ero un prodigio, preferivo il pallone».Perché se ne andò?
«Dipese dalla chiusura politica e dall’ambiente culturale asfittico. Era il 1979».
Poi è emigrato polemicamente anche dall’Austria. Le ragioni?
«Arrivò al governo il partito di destra di Jörg Haider, uno il cui linguaggio mostruoso evocava fantasmi del passato che in Austria fanno più paura che altrove. Allora abitavo a Salisburgo con mia moglie, la violinista Yuuko Shiokawa: decidemmo di trasferirci poco fuori Firenze».
È lì che ha familiarizzato con Andrea Barca?
«(Ride) Sì, il mio alter ego fittizio, che difatti porta il mio nome tradotto in italiano. Per lui ho perfino creato una biografia burlesca: “ha avvicinato Mozart di passaggio in Toscana e, autore sfortunato di melodrammi, lo si ricorda per l’opera La ribollita bruciata”».
A Vicenza lavorerà con l’ensemble a lui intitolato.
«È l’orchestra giovanile più anziana in circolazione. Giovani eravamo quando il festival è nato. Ora che l’età si fa sentire, ho deciso che l’anno prossimo il gruppo si scioglierà. Avrei potuto sostituire qualche componente, ma non pratico l’usa e getta. Dopo, la rassegna proseguirà in versione cameristica».
Un concertista si nutre di sola musica?
«No, bisogna tendere a un’esistenza compiuta: letture, arte, cinema, conversazioni con gli amici, passeggiate. Quel che si vive filtra nel modo di suonare, ecco perché non studio il piano più di tre ore».
Quanto conta il talento?
«Imprescindibile. Ma va disciplinato inscrivendolo in un ritmo regolare d’esistenza. Necessario quanto il buon gusto».
Che deve possedere anche il pubblico?
«Nel buon gusto si manifesta la cultura di individui e società. L’Europa l’aveva, ora no. Basta vedere come la gente va ai concerti: non più abiti eleganti, solo sneakers da palestra. Mi accusano di elitarismo. Rispondo d’essere orgoglioso di appartenere all’élite, che è, etimologicamente, il gruppo dei migliori».