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 2025  aprile 20 Domenica calendario

Annie Ernaux: “Non volevo vincere il Nobel”

Appuntamento davanti al cancello. «La Favola» è scritto in corsivo sulla griglia. C’è anche un po’ di Italia nella casa di Cergy, a nord della capitale francese. Un giardino punteggiato di margherite si apre tra alberi secolari. Due panchine vuote invitano a guardare l’orizzonte. In fondo, si intravede un’ansa dell’Oise, un affluente della Senna che piega verso la Normandia. Si passa davanti al polo universitario, alla «città nuova» senza fascino, per inerpicarsi sulle alture. Appare una magione senza pretese. Libri, fotografie, divani di velluto. Una bottiglia di acqua minerale sul tavolo per l’ospite. Annie Ernaux sorride, i capelli un po’ spettinati, gli occhi azzurri che brillano.
«Voglio vivere una favola» era un graffito letto sui gradini della chiesa di Santa Croce, a Firenze. Ernaux stava vivendo una relazione con un diplomatico dell’allora Urss, un’ossessione divorante che ha raccontato inPassione semplice, il libro con cui è poi diventata famosa anche in Italia e ora ripubblicato nella nuova collana Bur Letteraria, insieme a La donna gelata e L’evento. Al ritorno da Firenze, Ernaux decide di apporre quella parola – «Favola» – sul cancello. Tutto è già lì: il gesto della memoria, il legame tra intimità e scrittura, il mondo che si incide nel racconto di sé.
Ernaux concentra subito la discussione su Passione semplice, forse uno dei libri che le sta più a cuore, nato a cavallo dei suoi cinquant’anni, della fine dell’Unione Sovietica, con un mistero che solo ora ha voglia in parte di svelare. Riapre l’edizione originale, uscita ormai più di trent’anni fa. Resta colpita da una frase che aveva scritto quasi d’istinto. «Un giorno questa storia non significherà più nulla per me». È vero, ma solo in parte. «Oggi non provo più nulla per quell’uomo. Ma ho vissuto quella passione. Mi ha attraversata. E, nel viverla, avevo già la sensazione di essere nel libro. C’era la stessa precisione, lo stesso desiderio che ogni incontro fosse perfetto. Come se ogni abito, canzone, viaggio, ristorante, fosse già un capitolo». Il titolo, spiega, nasce da un dettaglio concreto, quasi insignificante. Sulla camicia dell’amante, cucite all’altezza del petto, le iniziali: «P. S.». Ovvero Sergej e un cognome che Ernaux non ha mai voluto rivelare. Nel libro l’identità dell’amante è nascosta, il protagonista è un generico «A.». Da quelle iniziali, P. S., è arrivato il titolo. «Ho pensato al termine che si usa per descrivere in chimica un corpo semplice, puro», racconta.
La relazione inizia a Mosca, durante un viaggio di scrittori francesi. Durante la visita di un monastero, lui posa una mano leggera sui suoi fianchi. È un gesto fugace, non plateale. «Un accenno di corteggiamento, niente a che vedere con MeToo» ricorda Ernaux con malizia. Da quel momento, lei diventa attenta. Nota la sua presenza costante, i modi misurati, un’eleganza sobria. L’ultima sera si salutano, lei lascia l’albergo dove è avvenuto il ricevimento. Poi ha un presentimento, decide di tornare indietro. «E la cosa straordinaria è che lui mi stava aspettando». Nel libro però non c’è nulla di questo. «Passione semplice non èun romanzo. È un ossessivo inventario, un’osservazione quasi clinica di sé» spiega la scrittrice.
Ernaux invita a seguirla nello studio. Una finestra a nord, con una barriera di piante davanti. La scrivania è coperta di ritagli di giornali. «Ecco il dossier di Passione semplice», racconta, mostrando lo spessore del fascicolo in cui ha raccolto gli articoli dell’epoca. È senz’altro il suo libro di maggior successo – balzato in testa alle classifiche – e che ha suscitato più polemiche. «Fu impressionante, mi invitavano alla televisione, ero su tutte le riviste». Mostra un’inchiesta di Marie Claire con scrittrici, attrici, giornaliste che commentano il libro. Le opinioni sono taglienti, senza sfumature. Alcune lettrici si riconoscono totalmente nel testo, altre lo rifiutano in blocco. C’è chi accusa Ernaux di mancanza di pudore, di essersi «messa a nudo», esposta troppo, persino di umiliarsi in pubblico. Un giornalista del Nouvel Obs la soprannomina «Madame Ovary», in una variazione misogina di Flaubert. Lei alza lo sguardo dal foglio, e chiosa: «E nessuno invece dice che anche gli uomini scrivono col sesso».
Non era in cerca di provocazioni ma, quando consegna il manoscritto a Gallimard, ammette di averne capito la forza dirompente. «Era qualcosa che non avevo mai letto da nessuna parte». Quindi, aggiunge, necessario. Il vero scandalo era l’idea che una donna avesse raccontato il desiderio, l’attesa, il sesso senza abbellimenti, senza romanzarli. «Scrivevo quello che accadeva». Con Ernaux l’intimità non scivola mai nell’autofinzione narcisistica ma in una presa di distanza. «È accaduto a una donna che sono io» spiega. «Questo mi permette non solo di descrivere ciò che ho vissuto, ma di trasformarlo in materia letteraria, in una forma di verità universale». Il film tratto dal romanzo, diretto da Danielle Arbid nel 2020, non l’ha convinta: troppe scene esplicite, poca tensione. «Una passione non è solo sesso. È sesso più qualcosa». Avrebbe preferito un film più interiore, più evocativo. Anche Maurice Pialat, molti anni prima, aveva pensato a un adattamento. Voleva girare nella sua casa e le chiese di scrivere la sceneggiatura. «Escludo di fare un film in questa casa, e la sceneggiatura è già nel libro», rispose. Il progetto è sfumato.
Con Sergej non si sono mai più rivisti. «Gli avevo promesso che non avrei scritto nulla su di noi. Penso sia uno dei motivi per cui non è tornato». Nelle interviste Ernaux ha però tenuto sempre molto riserbo su quel misterioso amante. Ora è in vena di confidenze. Quel misterioso Sergej, racconta, è ricomparso in modo indiretto nella sua vita, nel 2008, durante la presentazione de Gli anni. Una donna si avvicina e sostiene di conoscere il protagonista di Passione semplice.
Pronuncia il nome e cognome. Mostra il tesserino dei servizi segreti francesi. È in cerca di altre informazioni sull’ex diplomatico sovietico ancora in circolazione. «Non lo vedo più da anni e quando ci frequentavamo non parlavamo mai di politica», taglia corto Ernaux.
La scena, degna di un romanzo di spionaggio, la lascia sconvolta: «Sono tornata a casa turbata». Da allora, nessuna notizia. «Non so nemmeno se sia ancora vivo», confida.Aveva dodici anni meno di lei, ma «i russi bevono molto», aggiunge con una nota di ironia fatalista. Chi era davvero quell’uomo? «È possibile che avesse attività legate all’intelligence» osserva Ernaux. «Me lo aveva quasi confessato dicendo una volta: “È normale voler sapere, quando si è in un Paese straniero”».
L’aspetto più narrativo, più soggettivo, della relazione con Sergej è contenuto in Se perdre, le pagine del diario di quel periodo, pubblicate all’inizio degli anni Duemila. Ernaux continua a scrivere il suo diario. Ha cominciato su carta, trascrivendo tutto al computer a partire dal 1995, per timore che i quaderni si deteriorassero. Oggi il suo diario conta circa cinque milioni di battute. «Non è un appuntamento regolare», precisa. Negli ultimi anni, lo spazio dedicato alla politica è aumentato. «Non ho problemi con i miei figli e i fatti amorosi sono largamente scomparsi» aggiunge con un sorriso. Uno slittamento non solo biografico. Riflette un’inquietudine crescente verso il mondo: la guerra a Gaza, l’ascesa dell’estrema destra. E quel Donald Trump che osserva esterrefatta. «È al di là della finzione», osserva. Ammira i diari di altre scrittrici – in particolare quello di Virginia Woolf – e considera il proprio come una forma di «memoria in movimento». È grazie a queste pagine che ha potuto scrivere Gli anni.
«Non è come cercare su Internet. È la mia memoria soggettiva». Fino a qualche anno fa, pensava di scrivere un seguito. «Il Nobel ha sconvolto anche questo progetto», ammette, quasi con rassegnazione.
La sola parola Nobel la getta nello sconforto. «È stato terribile» dice d’emblée. «Non mi aspettavo affatto di riceverlo». E aggiunge: «Non lo volevo». Pressione, visibilità. Tutte cose da cui scappare. Un pensiero da allontanare, quasi in modo superstizioso. «Molti me ne parlavano, e io pensavo: sono matti». Anche quando, pochi giorni prima dell’annuncio, la sua addetta stampa le suggerisce di chiudere il cancello di casa «perché si parla di lei» ha un moto di fastidio. Comincia a irritarsi.
La mattina del 6 ottobre 2022 il telefono di casa inizia a squillare, non risponde. Quando vede apparire sul cellulare il prefisso svedese, il dubbio si insinua. Va in cucina, svuota la lavastoviglie. Accende la radio. Sentendo pronunciare il proprio nome, cade in un «vuoto mentale». «Come quando si riceve una cattiva notizia. Ho iniziato ad agire come si fa davanti a una disgrazia». Vestirsi, preparare un breve discorso, aspettare l’autista di Gallimard, affrontare trecento giornalisti. «Dovevo comportarmi come qualcuno che ha appena vinto il Nobel». Un momento di sdoppiamento.
Avverte il paradosso del disagio che sta esprimendo. «Philip Roth lo voleva tanto, ed è morto senza ottenerlo. Tanti altri scrittori lo sognano». E si chiede: «Le donne desiderano il Nobel quanto gli uomini? Ne dubito». Dice che vorrebbe parlarne con Olga Tokarczuk, la scrittrice polacca che ha ricevuto il riconoscimento qualche anno prima di lei. Nel 2022 un altro nome circolava nei media, quello di Michel Houellebecq. «Sono fandonie, non è mai stato davvero in lizza» sottolinea Ernaux. E aggiunge: «Il senso originario del premio, secondo Alfred Nobel, è premiare chi contribuisce all’elevazione delle società. In quest’ottica, è difficile immaginare che venga premiato uno scrittore di estrema destra, o portatore di un discorsod’odio verso donne e minoranze».
In quindici anni, la Francia ha visto tre suoi autori ricevere il Nobel: Modiano, Le Clézio ed Ernaux. «È una grande diversità», osserva. Ha iniziato a pubblicare nel 1974, dopo di loro, ma condivide una storia generazionale. Pur nei loro universi letterari molto differenti, li sente parte del proprio paesaggio di lettrice e scrittrice. «Sono autori che leggo da molto tempo».
Se Jean-Paul Sartre rifiutò il Nobel, lei non ci ha mai pensato: «Sono troppo piccola per fare una cosa simile» confida con umiltà. Come per Camus, il suo Nobel ha anche un sapore politico. Camus viene premiato nel mezzo della guerra d’Algeria, Ernaux dice di aver voluto affrontare un’altra frattura: quella della dominazione sociale, del sessismo, delle disuguaglianze. Essere la prima scrittrice francese a vincere il Nobel è, per lei, un simbolo che potrebbe rivelarsi utile. «Serve alle donne. Serve ai transfughi di classe come me».
Nel suo discorso a Stoccolma ha ricordato la promessa fatta a se stessa a ventitré anni. «Scrivo per vendicare la mia razza». Una formula potente, che esprimeva un desiderio di riscatto sociale. «Volevo dimostrare che l’accesso alla letteratura non è riservato solo a chi nasce con un segno d’elezione sulla testa».
Nella casa c’è una calma sospesa. Il gatto Sam chiede carezze, mentre Zoé ha appena portato tre topi in camera da letto. «Per loro è un gesto d’amore». L’agitazione mediatica si è attenuata, «ma gradualmente». Gli inviti continuano ad arrivare, Ernaux li declina quasi tutti. «È estenuante. Ripetitivo. Mi stressa». Anche Parigi è lontana: «Non ho velleità egotiche». Guarda le ragazze di oggi con ammirazione: «Hanno una sicurezza, una libertà che io non ho mai conosciuto». Le donne sono arrivate ai vertici di aziende e politica ma i lavori più duri, invisibili, restano femminili. E gli uomini cercano di conservare il proprio potere. «Non necessariamente in modo consapevole, ma perché beneficiano di un sistema che continua a offrire loro privilegi».
Alla fine dell’incontro, Ernaux parla della vecchiaia con delicatezza, senza lamenti. Non può più viaggiare come prima. Non tornerà a Venezia, dove è stata diciassette volte. Troppi gradini, troppa artrosi. Aveva temuto la vecchiaia, ma è arrivata in silenzio. «In modo insensibile. Un giorno mi sono detta: diamine, sono vecchia. Eppure non è cambiato nulla. Il sole sorge ogni mattina. I gatti chiedono da mangiare». Parla della menopausa, arrivata poco dopo la fine di quella passione semplice. «Come molte donne all’epoca, seguii una terapia ormonale sostitutiva. Poi un cancro al seno. Oggi le cose sono cambiate. Le donne parlano. Delle mestruazioni, della menopausa, del corpo. È un sollievo. Una liberazione». La vera rivoluzione, dice, è stata la possibilità di decidere della propria maternità. La contraccezione. L’aborto libero. «È cambiato tutto. E ancora non abbiamo visto davvero le conseguenze di questa rivoluzione».
Tra i gatti che reclamano attenzioni, i quaderni pieni, le finestre aperte sulla memoria, tutto torna a quel nome scritto in corsivo sul cancello. A Firenze quel graffito – «Voglio vivere una favola» – non c’è più. Nessun lieto fine, nessun incantesimo. Ernaux ha fatto della realtà nuda, anche la più bruciante, l’unica favola possibile. Non quella che consola, ma quella che resta. Nella sua casa piena di luce, è una vita attraversata dalla scrittura.