La Lettura, 20 aprile 2025
Luc non c’è più. Chiamami Lucy
Luc diventò Lucy all’inizio del 2021. Luc in realtà si è sempre sentita Lucy, da quando aveva dieci anni, ma all’inizio del 2021, durante la pandemia, quando la testa e il cuore si sono fatti più pesanti, quando i pensieri uscivano a fatica dalla stanza, Luc aprì quasi per caso FaceApp, un’applicazione che permette di trasformare il proprio volto, proponendo anche la versione di genere opposto. Così Luc vide per la prima volta Lucy. Scoprì soprattutto che la differenza più grande tra Luc e Lucy era che lei era più «rilassata». Luc provò a giocare con foto appartenenti a epoche diverse della vita, e ogni volta che l’app restituiva immagini che non si discostavano troppo dalla realtà, il pugnale nel cuore «affondava sempre di più». La storia della transizione di genere di Lucy Sante (1954) è narrata nel memoir Io sono lei (NN Editore), nel quale l’autrice affronta ogni stagione dell’esistenza come se fosse uno strato appesantito da una patina ingiallita: gli occhi rimangono lucidi, impietosi, sinceri.
All’inizio del 2021, tra il 28 febbraio e il 1° marzo, Luc inviò una lettera destinata a una ristretta cerchia di amici, circa trenta persone. L’oggetto dell’email era: «Una bomba». Ogni email venne spedita separatamente, come se volesse rispettare la solennità di un rito. L’email cominciava così: «La diga è saltata il 16 febbraio, quando ho caricato FaceApp così, per ridere. Avevo già provato quell’app qualche anno prima: non aveva funzionato bene e l’immagine era venuta fuori tutta pasticciata. Ma ora avevo il cellulare nuovo ed ero curioso. L’unico motivo per cui l’app mi interessava era la funzionalità per cambiare sesso, e la prima foto con cui l’ho collaudata era la stessa della prima volta, scattata sul momento. Stavolta l’app mi ha restituito il ritratto di una signora di mezza età, della Hudson Valley: forte, sana, con una vita morigerata. Aveva anche un’adorabile chioma castana fluente e il trucco appena accennato. E la sua faccia era la mia. Non c’erano dubbi: naso, bocca, occhi, fronte, a parte qualche accenno di ritocco. Quella ero io. Quando l’ho vista ho sentito qualcosa liquefarsi nel nucleo del mio corpo. Tremavo dalle spalle all’inguine. Credo che finalmente mi fossi trovato faccia a faccia con la mia resa dei conti».
Fu una dolorosa liberazione, arrivata a 67 anni, quando Luc aveva una moglie e un figlio. A lungo Lucy si è sentita nel corpo sbagliato: lei che alla nascita era un bambino figlio unico di operai devoti al cattolicesimo; Luc nato in Belgio, emigrato da piccolo con la famiglia negli Stati Uniti. Trasferitosi a New York, si buttò, anni dopo, nella scena artistica e culturale dei primi anni Settanta, stringendo amicizia con giganti come Nan Goldin, Jean-Michel Basquiat, Jim Jarmusch, Paul Auster e Martin Scorsese, che si ispirerà alla sua opera per realizzare Gangs of New York. Diventò critico, scrittore, editor, docente al Bard College.
«Ricordo il giorno in cui dissi a mio figlio che avrei affrontato la transizione di genere. Camminavamo nella neve. Era rilassato quel giorno e lo è tuttora, appartiene a una generazione che conosce la parola transgender, ha conosciuto persone transgender. Il suo dubbio più grande era come chiamarmi. A quel punto delle nostre vite mi aveva sempre chiamato “papà”. Allora gli dissi: chiamami Lucy, non voglio essere chiamato mamma, ne hai già una di quelle (accenna un sorriso, ndr). Non mi ha mai chiamata in alcun modo specifico da quel momento in poi. Forse è stata questa la parte più difficile per lui», confessa Lucy Sante a «la Lettura», collegata su Zoom.
Torniamo al giorno in cui scoprì il suo volto femminile, su FaceApp. Che emozioni prova a distanza di anni?
«Ricordo quando apparve su FaceApp quella foto: ero io, ed ero una donna. Quel giorno si sono aperte moltissime porte nella mia testa. Mi sono ritrovata a pensare, a volare con la mente. La prima reazione istintiva fu di rastrellare tutte le foto che avevo per casa e di caricarle sull’app, da quelle in cui avevo dieci anni alle più recenti. In quel momento era come se stessi vivendo una vita parallela, non si trattava soltanto di vedere una vita scorrere per immagini sotto i miei occhi ma di vedere quelle immagini riflettere un mondo interiore, uno stato in cui avevo vissuto da sempre. Ho intrapreso un tour della mia vita interiore. Ho pensato: oh cavolo, ma allora sono trans! L’altro pensiero immediato è stato: devo raccontare questa esperienza in un libro».
È stata una liberazione? Che cosa ha provato nel momento esatto in cui ha visto il suo volto femminile?
«È stato il Big Bang. A distanza di anni le onde e le vibrazioni che si sono scatenate riverberano ancora dentro di me. Sì, è stata una liberazione. Ho capito tanti comportamenti che ho assunto nella vita, tante cose che ho fatto. Una parte di me pensava di avere risolto tutti i problemi, pensava che sarei potuta finalmente uscire allo scoperto, aprirmi al mondo, così che tutti mi avrebbero amato per quella che ero. Ho capito che la relazione con mia moglie, che a quel punto della mia vita era andata avanti per 14 anni, non sarebbe sopravvissuta a questo terremoto. Quella è stata la parte che mi ha terrorizzato di più».
Che cosa vuol dire essere trans nell’America di Donald Trump, il presidente che ha promesso una guerra contro la diversità?
«È orribile questa America, è terrificante. Trump continua a licenziare donne presenti ai vertici dell’esercito, donne preparatissime come la rappresentante Usa alla Nato, Shoshana Chatfield. Sta riscrivendo la storia. Vuole eliminare tutti coloro che non sono maschi bianchi: via le donne, via i neri, via i nativi. È una follia. Parla come un suprematista, si comporta come un suprematista. Io non ho paura per me stessa: ho quasi 71 anni, quanto tempo ancora mi resta da vivere? Ho paura per i giovani. Temo che questo Paese non sarà in grado di resistere a un altro tsunami. Sono belga di nascita, sono stata naturalizzata nel 2016, quando Trump è diventato presidente per la prima volta. Potrei tornare in Europa un giorno, ho amici in tutto il mondo, anche se il 99% della mia vita è qui, e alla mia età non ho più certe possibilità. Vivo in una piccola città a un centinaio di chilometri a nord di New York, qui ci sono molti sostenitori di Trump. Anche se politicamente lo Stato di New York è democratico, nelle zone rurali l’elettorato è misto, permane uno zoccolo repubblicano che corre dietro al tycoon. Non ho mai subito molestie da quando ho cominciato la transizione di genere, perché sono vecchia. Non ho alcun potenziale sessuale. Nessuno mi nota veramente. La solitudine mi ha inseguita per tutta la vita: figlio unico di genitori immigrati, sempre in un corpo sbagliato. Spesso sono l’unica persona trans nella stanza in cui mi trovo. Il mio mondo è composto per il 99 per cento da persone che si riconoscono nel sesso con il quale sono venute al mondo».
I suoi genitori hanno mai capito che si sentiva nel corpo sbagliato?
«Era impensabile per loro. Non avevano ricevuto un’instruzione adeguata, non avevano alcuna esperienza del mondo».
Come avrebbero reagito vedendola trasformarsi in un donna?
«A mia madre sarebbe venuto un colpo».