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 2025  aprile 20 Domenica calendario

La democrazia dipende da noi

Ottant’anni fa, il 25 aprile 1945, il Nord Italia si emancipò dal dominio nazifascista con l’insurrezione proclamata dalle forze del Comitato di liberazione nazionale (Cln). Ma l’unità dei partiti antifascisti si spezzò già nel 1947 e ne conseguì un conflitto duro. Viene quindi da domandarsi se abbia senso oggi proporre l’antifascismo come riferimento fondante della democrazia italiana. Ne abbiamo discusso con tre storici: Luca Baldissara, dell’Università di Bologna; Emilio Gentile, docente emerito della Sapienza di Roma; Paolo Pombeni, direttore della rivista «il Mulino».
LUCA BALDISSARA – Nella storia dell’Italia repubblicana l’antifascismo rappresenta un collante che a partire dal dopoguerra ha comunque garantito il mantenimento di un quadro unitario, nonostante i conflitti politici che hanno toccato in alcune fasi punte di estrema asprezza. Nello stesso 1947, quando le sinistre vengono estromesse dal governo guidato da Alcide De Gasperi, i lavori della Costituente vanno avanti e giungono a una conclusione condivisa. Il che dimostra che, pur nel contesto di un antagonismo marcato, è stato possibile trovare un orizzonte di collaborazione sui punti fondamentali che definiscono la democrazia italiana.
E dopo il varo della Costituzione?
LUCA BALDISSARA – L’intesa di fondo sui valori dell’antifascismo si rinnova in altre occasioni. Per esempio nel 1960, di fronte ai rischi potenziali per la democrazia posti dal governo diretto da Fernando Tambroni, che si reggeva sull’appoggio del Msi neofascista. E poi negli anni Settanta, quando si trattava di affrontare la minaccia del terrorismo. Credo quindi che rimanga indubbia l’attualità dell’antifascismo, inteso ovviamente non come una riproposizione delle sue espressioni passate tali e quali, ma come una larga convergenza sulle regole fondanti della democrazia.
EMILIO GENTILE – Senza dubbio la democrazia repubblicana è nata dall’antifascismo. Ma parliamo dell’antifascismo che si manifesta nella Resistenza e non di quello precedente al 1943, che era profondamente diviso. Durante il ventennio gli oppositori democratici del regime di Benito Mussolini consideravano liberticida l’antifascismo dei comunisti, che a loro volta rifiutavano l’antifascismo degli altri partiti in quanto anticomunista. Per Palmiro Togliatti e Antonio Gramsci, erano fascisti o semifascisti Giovanni Amendola, Luigi Sturzo, Filippo Turati, Carlo Rosselli. Amendola e Sturzo viceversa denunciavano forti somiglianze tra la dittatura del Duce e quella bolscevica.
Che cosa cambia dopo l’8 settembre?
EMILIO GENTILE – Durante la Resistenza per la prima volta tutti i partiti antifascisti collaborano per liberare il Paese dai tedeschi, cancellare il retaggio del totalitarismo di Mussolini e costruire un’Italia democratica, fondata sulla libertà e sulla giustizia sociale. Obiettivi che sono incorporati e istituzionalizzati nella Costituzione, in cui peraltro, diversamente da quanto si sente dire, la Repubblica non è mai definita esplicitamente come antifascista. Poi viene la guerra fredda a dividere i partiti e si depositano tra di essi varie incrostazioni polemiche, ma di certo l’antifascismo come collante può reggere solo se s’identifica in modo preciso con le istituzioni democratiche. A questo proposito mi ha colpito la convergenza che si riscontra nel 1960, per il quindicesimo anniversario della Liberazione, tra due protagonisti della lotta partigiana distanti tra loro: l’azionista Ferruccio Parri e il comunista Pietro Secchia, critico da sinistra di Togliatti. Entrambi insistono sul carattere nazionale della Resistenza. Secchia la definisce come conquista della libertà e dell’indipendenza per tutti gli italiani, fascisti compresi. Mi pare questo il senso ancora attuale dell’antifascismo.
PAOLO POMBENI – Le recenti polemiche sull’eredità della lotta partigiana hanno fatto perdere di vista un aspetto. Che cos’è il Cln? In sostanza è la ricostituzione dell’Aventino, il complesso delle forze che nel 1924 decisero di astenersi dai lavori parlamentari per denunciare le responsabilità del governo Mussolini nel delitto Matteotti. C’è dunque una continuità nell’intento di riallacciarsi alla tradizione costituzionale e liberale dell’Italia, interrotta dal fascismo, conferendole un nuovo contenuto democratico.
Tuttavia una parte dei partigiani vive la Resistenza come una lotta rivoluzionaria.
PAOLO POMBENI – In un movimento di massa può entrare di tutto. Ma le classi dirigenti della Resistenza sono concordi nel ricostruire un’Italia democratica. Qui però sorge un problema. Ferruccio Parri, dopo la Liberazione, afferma che l’Italia prefascista non era stata una democrazia, suscitando la reazione polemica di Benedetto Croce in difesa di quella esperienza: secondo il filosofo il fascismo era stato solo una parentesi. La questione resta tuttora aperta, ma di certo una novità forte va sottolineata: la Repubblica antifascista si regge sui partiti, mentre non era così nell’Italia monarchica. L’unico ad autoescludersi è il Msi neofascista, che però proverà presto un po’ furbescamente a reinserirsi nel gioco. Ma, ripeto, se non si coglie il nesso di lungo periodo tra l’Aventino e il Cln, diventa difficile sottrarsi alla gara per cui ciascuno dice: la mia Resistenza è migliore della tua.
Però i comunisti escono dall’Aventino quasi subito, criticando duramente le altre forze antifasciste.
PAOLO POMBENI – È vero, ma poi si verifica un profondo ripensamento. Il Pci che entra nel Cln viene dall’esperienza dei fronti popolari, ha abbandonato già negli anni Trenta l’idea che la democrazia borghese non sia un valore, ma solo l’anticamera del fascismo. Si può giudicare l’atteggiamento dei comunisti tattico e strumentale, ma non dimentichiamo che quella svolta fu benedetta dallo stesso Iosif Stalin, anche se poi nei Paesi dell’Est Mosca impose il modello sovietico.
Passiamo ai giorni nostri. Vi preoccupa la presenza alla guida del governo di Giorgia Meloni, che è erede del Msi e rifiuta di definirsi antifascista? La sua proposta di premierato ha venature autoritarie?
LUCA BALDISSARA – Mi pare che la presidente del Consiglio si sia dichiarata chiaramente anti-antifascista. Ma il problema non è misurare quanto Meloni sia ancora legata al retaggio nostalgico del Msi, bensì valutare come posizioni e provvedimenti dell’attuale governo possano richiamare forme di autoritarismo e di plebiscitarismo. E io credo che qualche elemento in questo senso vi sia.
A che cosa si riferisce?
LUCA BALDISSARA – Per esempio il continuo richiamo all’investitura popolare, come se la vittoria alle elezioni consentisse alla maggioranza di sottrarsi a ogni tipo di vincolo, di confronto e di controllo. Poi c’è l’insistenza sul rafforzamento dell’esecutivo, tendenza che peraltro viene da lontano e riguarda anche altri Paesi europei. Aggiungo alcuni aspetti del decreto sicurezza e l’attacco radicale alla magistratura, accusata di fare politica. Sono fattori che danno l’idea di una concezione gerarchica e verticistica, che non accetta il dissenso e presenta le piazze d’opposizione come una minaccia. Se si compongono tutte le tessere del mosaico, qualche preoccupazione mi sembra legittima, non per un ritorno del fascismo, ma per l’indebolimento della democrazia.
EMILIO GENTILE – Facciamo un’ipotesi. Domani Giorgia Meloni, come in fondo ha già fatto nel 2023 e come fece nel 1994 Gianfranco Fini, allora segretario del Msi che in quell’anno per la prima volta era al governo con Silvio Berlusconi, riconosce nel 25 aprile una tappa fondamentale della storia italiana, perché la Resistenza ha restituito al popolo la libertà di scegliere i governanti attraverso pacifiche elezioni. Non solo. Mettiamo che la presidente del Consiglio tolga dal simbolo di Fratelli d’Italia la Fiamma tricolore legata al Msi, partito che peraltro dal 1946 aveva svolto regolarmente attività politica in Italia. A quel punto sarebbe legittimata a continuare nella sua attuale condotta governativa?
Lei sostiene che non cambierebbe nulla?
EMILIO GENTILE – Dico che la politica di Meloni non deriva dalla sua matrice neofascista, ma da una crisi generalizzata della democrazia liberale e parlamentare. L’accusa di fascismo è stata molto abusata. Il socialista Lelio Basso all’inizio degli anni Cinquanta scrisse che la Democrazia cristiana era totalitaria come il regime di Mussolini. E di fascismo fu tacciato De Gasperi, solo per avere sostenuto che il Ventennio apparteneva alla storia e bisognava guardare avanti. Charles de Gaulle nel 1958 venne dipinto come fascista per avere trasformato la Francia in una repubblica presidenziale. Il socialista François Mitterrand disse che si trattava di un «colpo di Stato permanente», anche se in seguito riuscì a guidare il Paese per 14 anni proprio grazie al sistema introdotto da de Gaulle.
Insomma l’accusa di fascismo è un’arma spuntata?
EMILIO GENTILE – Io vedo il pericolo di sbocchi che nulla hanno a che fare con il fascismo, ma possono generare poteri autoritari basati sul suffragio universale. Per esempio mi sembra in grave crisi, non certo solo in Italia, il principio affermato dall’articolo 3 della Costituzione, secondo cui la Repubblica deve rimuovere tutti gli ostacoli che impediscono la piena emancipazione dei cittadini, senza alcun tipo di discriminazione.
Stiamo tradendo quell’ideale?
EMILIO GENTILE – Se gli elettori non vanno a votare, vuol dire che disconoscono il valore della democrazia. Se i giovani laureati fuggono dall’Italia, è perché in patria vedono ostacoli insormontabili sul loro cammino. Se l’istruzione subisce tagli continui di fondi, è difficile che possa svolgere il suo compito di emancipazione. Insomma, il problema non è Meloni che non si proclama antifascista, ma il modo in cui le politiche seguite da tutti i governi, nel corso degli ultimi decenni, hanno contraddetto il dettato dell’articolo 3.
PAOLO POMBENI – Chiedere a Meloni di dirsi antifascista è un po’ come domandare ai cristiani protestanti di riconoscere che Martin Lutero era un eretico. Non ha molto senso. Dal mio punto di vista la questione è indifferente. Il vero problema è quello che fa il governo. Ciò non toglie che si debba ricordare all’attuale maggioranza che si trova a guidare il Paese proprio perché l’antifascismo è risultato storicamente vincente e ha riportato nel circuito democratico anche gli eredi del regime di Mussolini. D’altronde non si può pensare che tutti gli elettori della destra siano nostalgici del Duce. Approfitto per aprire una parentesi su De Gasperi, il cui antifascismo era indiscutibile: nei suoi discorsi si trovano passaggi durissimi contro il leader missino Giorgio Almirante.
EMILIO GENTILE – Preciso: non ho mai dubitato che De Gasperi fosse antifascista. Riferivo che quando era al governo fu accusato dai comunisti e dai socialisti di avere promosso un ritorno del fascismo mascherato da democrazia.
PAOLO POMBENI – È vero. Al contrario fu la proprio politica moderata di De Gasperi che consentì al sistema democratico di radicarsi. Da giovane non mi sembrava così, adesso lo capisco. Per tornare alla proposta del premierato, essa, come altri marchingegni istituzionali, nasce dalla crisi del sistema dei partiti. Io in materia sono molto laico: può esserci un premierato accettabile e un altro che sarebbe l’anticamera dell’autocrazia. La redistribuzione dei pesi dei poteri, attuata in modo equilibrato, può essere opportuna. La tendenza del governo a fare le leggi, sostituendosi al Parlamento, è un fenomeno che risale almeno ai tempi di Francesco Crispi, alla seconda metà dell’Ottocento, e va senza dubbio regolamentato. La stessa divisione tradizionale dei poteri funzionava finché tutte le istituzioni si ritenevano parte di uno stesso sistema. Ora invece ciascun potere si comporta come una monade che difende sé stessa e intende tagliare le unghie ai concorrenti. Questi sono i problemi che dobbiamo affrontare se vogliamo andare verso il futuro e non attardarci in sterili polemiche sul passato.
Spesso l’antifascismo viene identificato con posizioni di sinistra. Così da una parte si dice che il 25 aprile deve essere la festa di tutti; dall’altra, se è al potere la destra, gli si dà una forte connotazione antigovernativa. Non è una contraddizione?
LUCA BALDISSARA – Credo di sì. Spesso per alcuni settori della sinistra l’antifascismo è una foglia di fico per coprire l’incapacità di mettere a fuoco i problemi. Lo si usa per nascondere la scarsa chiarezza che c’è su temi come l’inclusione dei diversi, le riforme istituzionali, la difesa della pace. Così l’antifascismo, sin dal dopoguerra, è diventato una scorciatoia, una parola che promette molto, ma rischia di rivelarsi priva di contenuto.
Come se ne può uscire?
LUCA BALDISSARA – Bisogna distinguere i piani. Il 25 aprile va riportato alla storia: celebra la sconfitta del fascismo e l’affermazione a caro prezzo della democrazia, per cui andrebbe collegato strettamente al 2 giugno, che segna la nascita della Repubblica. Le due date si rispecchiano l’una nell’altra e anche la destra dovrebbe riconoscerlo. Che poi l’anniversario della Liberazione sia stato piegato nel tempo a fini politici era forse, almeno in parte, inevitabile. È avvenuto anche per altre date fondative all’estero: il 4 luglio negli Stati Uniti e il 14 luglio in Francia. In Italia il fenomeno è stato ovviamente accentuato dalla frammentazione e dalla polarizzazione ideologica dei partiti, che tendevano a tirare il 25 aprile dalla loro parte. Ricollocarlo nel suo contesto storico dovrebbe favorire il superamento delle passate distorsioni.
EMILIO GENTILE – Per quello che ne so io, le uniche occasioni in cui il 25 aprile non ha assunto una caratterizzazione antigovernativa sono state nel 1946, quando ancora la Repubblica non era nata e la festa fu istituita su proposta del comunista Giorgio Amendola a De Gasperi, e poi nel 1955, quando le celebrazioni furono presiedute dal capo dello Stato Luigi Einaudi. Nel 1994, subito dopo il primo successo elettorale di Silvio Berlusconi e l’ingresso del Msi al governo, ci fu un grande corteo contro il governo a Milano e persino un moderato come Giovanni Spadolini ventilò il pericolo che si arrivasse a uno stravolgimento della Costituzione nata dalla Resistenza. Comunque mi pare che ormai gli eredi del Msi dichiarino di riconoscere il valore della Liberazione, anche se immagino che su questo si continuerà a discutere in eterno. Ma io porrei il problema in altri termini.
Quali?
EMILIO GENTILE – La Resistenza è stata considerata un secondo Risorgimento, ma il fatto è che noi non abbiamo una data fondativa dello Stato unitario in cui gli italiani si rispecchino. Possiamo stupirci se non tutti i cittadini si riconoscono nel 25 aprile?
Nel 2011 abbiamo celebrato i 150 anni del 17 marzo 1861, la proclamazione del Regno d’Italia.
EMILIO GENTILE – Ma ce ne siamo ricordati per una sola volta e con l’opposizione di un partito di governo, la Lega, che peraltro adesso è diventata quasi più nazionalista del vecchio Msi.
PAOLO POMBENI – Il problema è chi può dare al Paese un riferimento comune intorno a cui ritrovarsi. Oggi il 25 aprile assistiamo a manifestazioni di parte, in cui ogni forza organizzatrice cerca di sfruttare una presunta eredità di cui sarebbe la titolare più genuina. Eppure la Liberazione dovrebbe rappresentare una serie di acquisizioni care a tutti. Un primo punto è che la Resistenza ha riscattato l’immagine dell’Italia al cospetto degli Alleati: non abbiamo avuto la lunga occupazione militare che ha subito la Germania e abbiamo riacquistato la sovranità abbastanza rapidamente. Ciò è stato possibile perché, come disse Da Gasperi alla conferenza di pace di Parigi, abbiamo pagato con il sangue dei partigiani la riconquista della dignità nazionale. Chi si dice patriota dovrebbe ricordarsene.
Però si è parlato anche di «Resistenza tradita».
PAOLO POMBENI – L’idea che dopo il 1945 si potesse e anzi dovesse fare la rivoluzione proletaria è pura demagogia. Il valore della Resistenza sta invece nel fatto che ha saputo mettere insieme forze molto diverse, ciascuna delle quali aveva radici profonde nella storia precedente. Purtroppo oggi manca un punto di riferimento, un’auctoritas capace di far condividere alcuni punti fermi agli odierni partiti sciamannati, ciascuno dei quali è interessato solo a far valere il proprio tornaconto. La colpa è anche della storiografia, perché gli studiosi che si sono occupati di questi temi sono stati tutti tendenzialmente degli storici di corte, legati strettamente ai partiti: si sono così sdraiati su interpretazioni unilaterali, tradendo il loro compito d’intellettuali.
Che significato ha l’eredità della Resistenza, in un contesto di leadership autoritarie, guerre sanguinose e forze xenofobe in ascesa? C’è da temere un ritorno del fascismo in forme nuove?
LUCA BALDISSARA – Le spinte nazionaliste e autoritarie delineano un quadro internazionale inquietante, reso ancora più tragico dalla guerra in Ucraina e dal massacro in corso a Gaza, senza contare le tensioni provocate dalle contese sui dazi. Andiamo a celebrare l’ottantesimo della Liberazione in un contesto che nega gran parte dei valori legati al 25 aprile e al processo di affermazione ed espansione della democrazia scaturito dalla sconfitta del nazifascismo. Oggi la Resistenza ci richiama a quello che scriveva in una famosa lettera Giaime Pintor, caduto nella lotta partigiana: non c’è nessuna salvezza possibile nella neutralità e nell’isolamento.
Che cosa vuol dire?
LUCA BALDISSARA – Di fronte alle minacce per la tenuta dei sistemi democratici, alle tendenze autoritarie che si manifestano, in una condizione sociale che sacrifica le istanze di emancipazione e di eguaglianza in nome delle quali si lottò contro il fascismo, il messaggio più forte che viene dalla Resistenza ci riporta alle motivazioni profonde dei partigiani: alla loro convinzione che, nel corso di una guerra totale dalle caratteristiche spaventose, fosse necessario riappropriarsi della politica nel senso più nobile del termine, quella che pone il problema di come costruire per la società un futuro migliore. Non si tratta di voler attualizzare banalmente l’esperienza partigiana, prodotto di un mondo diverso dal nostro, ma di sentirsi chiamati a reagire con una presa di posizione dal basso alle torsioni autoritarie che oggi sembrano prendere il sopravvento. Di capire che la salvezza della democrazia dipende da tutti noi.
EMILIO GENTILE – La lotta contro il fascismo in Italia dura a lungo, perché comincia nel 1920 e termina nel 1945, mentre in altri Paesi la Resistenza si limita al periodo dell’occupazione tedesca. Il 25 aprile segna la restaurazione innovativa dell’unità nazionale in chiave democratica. Tenendo conto che abbiamo vissuto sessant’anni di regime liberale, ottanta di democrazia repubblicana e solo venti di fascismo, dovremmo essere ottimisti sulla capacità del Paese di resistere a tendenze autoritarie. Il fascismo andò al potere con la minaccia delle armi: aveva poco più di trenta deputati all’epoca della marcia su Roma, poi si confezionò una legge elettorale su misura per ottenere la maggioranza assoluta, infine tolse al Parlamento ogni funzione e nel 1939 abolì la Camera dei deputati. Oggi invece i sistemi di «democrazia illiberale» si affermano con il voto dei cittadini, ma non sono investiti del potere a tempo indeterminato, almeno finora: per esempio in Brasile il presidente populista Jair Bolsonaro è stato sconfitto alle urne da Lula. E Trump non fu rieletto nel 2020.
Ora però è tornato alla Casa Bianca.
EMILIO GENTILE – Con quasi il 50 per cento dei voti. Questo è il metodo democratico, ma senza ideale democratico. Dieci anni fa ho avviato una riflessione su quella che chiamavo la «democrazia recitativa», con la partecipazione popolare in calo e una crescente personalizzazione autoritaria del potere. Oggi temo che si debba parlare di una «democrazia degenerativa», perché tutti i sintomi, soprattutto negli Stati Uniti, mostrano che lunghe tradizioni democratiche, certamente contrastate ma vitali, rischiano di essere sostituite da una prassi che sequestra il potere ed è in grado di recuperarlo anche dopo averlo perso.
C’è il modo di opporsi a simili tendenze?
EMILIO GENTILE – Che cosa si fa rispetto a una minaccia autoritaria o addirittura al ritorno del fascismo? Si scrive un articolo, si va in piazza, s’imbraccia il mitra? C’è il metodo democratico. In Italia, quando hanno potuto votare liberamente, i cittadini hanno scelto governi che hanno rispettato la libertà. Quindi in Italia c’è stata per oltre un secolo una tradizione democratica: purtroppo tutto ciò che possiamo considerare esempio del passato e ammonimento per il futuro si scontra con l’imprevedibilità del presente.
PAOLO POMBENI – Oggi viviamo un momento di transizione fra due epoche. Sta cambiando tutto e le persone, disorientate, tendono a cercare il messia che le salvi. È quello che avvenne con il fascismo, quando l’Italia si affidò a Mussolini. Si tratta quindi di combattere l’idea che il rimedio alle difficoltà stia nel trovare un capo carismatico o nell’adottare un’ideologia salvifica e utopistica. Sono soluzioni già fallite nella storia.
Ma la Resistenza può insegnarci ancora qualcosa?
PAOLO POMBENI – Credo di sì. Il movimento di Liberazione non ha avuto capi carismatici: neppure una figura come fu in Francia de Gaulle, che comunque nell’immediato dopoguerra fu messo da parte. E non c’è stato nella Resistenza il predominio di un’ideologia capace di mettere le altre fuori gioco: vi hanno preso parte comunisti, cattolici, azionisti, socialisti, liberali, anarchici. Classi dirigenti diverse hanno saputo lottare insieme, in una logica che portava all’aggregazione di forze sempre più ampie, compresi coloro che avversavano il fascismo, ma non erano disposti a prendere le armi. Di questo noi abbiamo bisogno di nuovo nel periodo di transizione in cui siamo entrati e che durerà a lungo.
Serve uno spirito unitario?
PAOLO POMBENI – Nel 1950 De Gasperi, in un discorso molto bello ai partigiani della Federazione volontari della libertà, ex combattenti di matrice cattolica e moderata, cita una canzone della Resistenza in cui alla domanda perché prendere le armi viene risposto: «Perché questa antica parola popolo suoni divina/ al mio compagno signore e a me stirpe contadina». Mi sembra un’indicazione ancora valida, ma non so quanti di coloro che preparano le manifestazioni per il 25 aprile siano su questa lunghezza d’onda.