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 2025  aprile 20 Domenica calendario

Quando Calvino scrisse a Scalfari: «Vivo in una gelida soffitta torinese, tiro la cinghia: scrivere è il mestiere più squallido»

Torino ha «certe virtù non dissimili da quelle della mia gente, e mie favorite: l’assenza di schiume romantiche, il far affidamento soprattutto sul proprio lavoro, una schiva diffidenza nativa, e in più il senso sicuro di partecipare al vasto mondo che si muove e non alla chiusa provincia, il piacere di vivere temperato d’ironia, l’intelligenza chiarificatrice e razionale». A scrivere è Italo Calvino, che con la città e i suoi abitanti stabilì in maniera costante una grande sintonia.
Natali caraibici
Lo scrittore nasce nel 1923 a Santiago de Las Vegas, piccola città presso l’Avana, in cui suo padre, di famiglia sanremese, si era trasferito per dirigere una stazione sperimentale di agricoltura e una scuola agraria. Il rientro in Italia, a Sanremo, nel 1925 e il suo primo ricordo, un anno dopo: il bastonamento di un socialista ad opera di una banda di squadristi. È a Torino, però, che si trasferisce nel 1941. Nel 1944 partecipa alla guerra partigiana: esordisce come autore di guerra raccontando l’esperienza della Resistenza e nel dopoguerra aderisce al Partito Comunista Italiano.
«La mia scelta non fu affatto sostenuta da motivazioni ideologiche. Sentivo la necessità di partire da una “tabula rasa” e perciò mi ero definito anarchico. Ma soprattutto sentivo che in quel momento quello che contava era l’azione; e i comunisti erano la forza più attiva e organizzata».
Il primo manoscritto rifiutato
Nel 1946 inizia a «gravitare» attorno alla casa editrice Einaudi, presso cui, qualche anno prima, aveva presentato senza successo il manoscritto Pazzo io o pazzi gli altri. Il suo primo impegno in via Biancamano è quello di vendere libri a rate ma, nel contempo, inizia la collaborazione con L’Unità e il Politecnico, settimanale di cultura contemporanea fondato da Elio Vittorini, edito proprio da Einaudi.
Sono gli anni in cui si laurea con una tesi su Joseph Conrad e inizia a frequentare l’intellighènzia della città: diventa amico di Cesare Pavese, suo primo lettore. Proprio grazie a Pavese presenta alla rivista Arthusa il racconto Angoscia in caserma, pubblicato nel numero di dicembre 1945. «Quando ho cominciato a scrivere», diceva «ero un uomo di poche letture, letterariamente ero un autodidatta la cui “didassi” doveva ancora cominciare». Due anni più tardi Einaudi pubblica, nella collana I coralli, Il sentiero dei nidi di ragno, che vince il Premio Riccione. Nella casa editrice torinese viene assunto per occuparsi inizialmente dell’ufficio stampa ma entra ben presto a far parte del côté intellettuale formato da Natalia Ginzburg, Norberto Bobbio, Felice Balbo e molti altri, oltre a Pavese e Vittorini.
Da Porta Nuova a Santa Giulia
All’inizio della sua vita torinese vive in polverose stanze in affitto nei presi di Porta Nuova. In una lettera a Eugenio Scalfari, suo compagno di scuola, scrive: «Lo scrivere è però oggi il più squallido e ascetico dei mestieri: vivo in una gelida soffitta torinese, tirando cinghia e attendendo i vaglia paterni che non posso che integrare con qualche migliaio di lire settimanali che mi guadagno a suon di collaborazioni». Più tardi, si sposta nel caseggiato di via Santa Giulia, in cui abitava anche Giulio Einaudi.
Ama passeggiare lungo il Po, spesso intrattenendosi in lunghe disquisizioni con Pavese; preferisce alcuni locali come la birreria Rattazzi e le osterie situate nella contrada Guardinfanti, tra via Mercanti e via Barbaroux. Ma la maggior parte del suo tempo la passa inevitabilmente alla scrivania: «Appartengo a quella specie dell’umanità – scrive —, una minoranza su scala planetaria ma credo una maggioranza tra il mio pubblico, che passa gran parte delle sue ore di veglia in un mondo speciale, un mondo fatto di righe orizzontali dove le parole si susseguono una per volta, dove ogni frase e ogni capoverso occupano il loro posto stabilito».