Corriere della Sera, 20 aprile 2025
Intervista a Mogol
Mogol, qual è il suo primo ricordo?
«Ho sei mesi. Sono in braccio alla mamma. Lei mi dà dei colpetti sulla spalla per farmi addormentare, e io mi sento sicuro».
I suoi genitori erano giovani.
«Papà aveva ventitré anni, mamma ventuno. Anche io mi sono sposato la prima volta a ventitré».
Cosa ricorda della guerra?
«Il sibilo delle bombe prima dell’esplosione, la gente come noi che si rifugiava negli scantinati di Carugo, Brianza comasca. E le lacrime, tante lacrime».
Aveva paura?
«Mi ero fatto costruire un piccolo cannone di legno che avevamo appeso in alto, in cantina. Era la mia personale contraerea».
Suo padre era fascista?
«Era un antifascista silenzioso. Si rifiutò di comprarmi la divisa dei Balilla con la scusa che costava troppo. Ma poi mi comprò una bicicletta da corsa che costava molto di più».
Come si arriva a quasi novant’anni in forma come lei?
«Con molta fortuna. Ho avuto una vita incredibile, ho corso molti pericoli. E ho rischiato la vita più di una volta».
Ad esempio?
«Incontrai una hostess della Japan Airlines, la sfidai: “Domani portami dei biglietti aerei a sufficienza per fare il giro del mondo”. Con un Boeing arrivai in Nuova Zelanda, sull’aereo c’ero solo io con quindici hostess. In auto, mentre giravo per l’Australia, a un certo punto mi fermai davanti a una insenatura sul mare. Non c’era nessuno, mi spogliai e mi tuffai. Mi trovai circondato da pinne di pescecani».
Come finì?
«Tornai a riva nuotando lentamente e pregando».
Prega spesso?
«Sì, credo che Dio ci protegga. Lo fece di certo quella volta che mi immersi a Porto Rotondo: mi calai in acqua raccomandandomi a un tizio che credevo amico affinché mi seguisse con la barca. Peccato che lui si mise a corteggiare la baby-sitter del figlio, scordandosi di me. Si alzò il mare. Rischiai di morire: per fortuna che un altro, da lontano, mi vide mentre cercavo di risalire con tre bombole sulla schiena e mi salvò».
È poi tornato sott’acqua?
«Certo. Un’altra volta non riuscivo a risalire, ero schiacciato dai pesi in fondo al mare. Respinsi una crisi di panico e camminai sul fondale fino a quando trovai un grande scoglio, che scalai fino alla superficie».
«Come può uno scoglio arginare il mare…». Quando ha cominciato a scrivere canzoni?
«Lavoravo alla Ricordi, dove mio padre, da impiegato, era divenuto responsabile del settore musica leggera, trasformandolo in un business. Cominciai col tradurre dei brani dall’inglese. Trasformai Space Oddity di David Bowie in Ragazzo solo, ragazza sola. Un successo. A David piacque così tanto che l’ha anche cantata, in italiano».
Bernardo Bertolucci l’ha usata per il suo film «Io e te».
«Ricordo quando Bernardo venne a trovarmi a casa. Era già in carrozzina, si muoveva a fatica. Un uomo straordinario».
Lei si chiama Giulio Rapetti. Perché divenne Mogol?
«Non volevo usare il nome di mio padre, mi serviva uno pseudonimo. Alla Siae ne portai una trentina, tra cui Zippo. Per fortuna scelsero Mogol».
Come gli imperatori dell’India?
«No. Come il Gran Mogol delle Giovani Marmotte».
E cominciò a lavorare con i grandi italiani della canzone. Come andò con Luigi Tenco?
«Luigi si era messo in testa di portare a Sanremo Ciao amore e mi chiese di migliorare il testo. Non ero d’accordo: il brano era quello, ma Tenco non era uno da Sanremo. Lui voleva andarci e soprattutto voleva vincerlo. Gli diedi un passaggio in auto da Roma, nel tragitto ci fermammo in una pensione e prendemmo una stanza con due letti. Trascorsi parte della notte a cercare di dissuaderlo, ma niente da fare. Andò a Sanremo con quella canzone, venne escluso e si tolse la vita».
Cosa c’è davvero dietro al suicidio di Tenco?
«Di certo lui era stato trafitto dal rifiuto sanremese e penso che questa sia la ragione principale. Però ricordo che in quella storia ci sono state tre vittime: lui, Dalida, con la quale aveva una storia, e il marito di Dalida. Tutti e tre morti suicidi».
Mina?
«Una grande artista, anche se non volle Il mio canto libero. La convinsi però a cantare Il cielo in una stanza di Gino Paoli. Non voleva farla nessuno a quel tempo, ma a me era piaciuta moltissimo».
Perché si è ritirata dalla vita pubblica?
«Credo per la stessa ragione con cui io all’epoca convinsi Lucio Battisti a farlo: l’eccessiva presenza ti annulla, l’assenza ti rende grande. È la lezione di Vasco Rossi».
Gianni Morandi?
«Esplose da ragazzo, poi venne il periodo nero. Era il cantante del disimpegno, quello di Fatti mandare dalla mamma, mentre in Italia si affermavano i cantautori politici. Lui si era messo a studiare violoncello al Conservatorio. Voleva smettere di cantare. Mimma Gaspari, la produttrice, mi disse: “Accompagnami a Roma da Gianni, che lo convinciamo”».
E lei?
«Ci chiudemmo in casa, in pigiama, Gianni si mise a suonare e io gli scrissi d’istinto Canzoni stonate. Rinacque. Gianni è molto generoso, ancora oggi racconta che si risollevò anche grazie a me».
Qualcuno che, invece, non l’ha ringraziata?
«Zucchero. Pensare che gli ho fatto lezione per sei mesi. Una volta gli raccontai la metafora del tiro a segno: al centro, dissi, c’è Lucio Battisti, tutto intorno i cantautori. Lui: “E io dove sono?”».
Zucchero sostiene che lei abbia risposto: «Tu sei nel mare di merda».
«No, gli dissi che lui era in cucina. E lo feci per spronarlo».
Riccardo Cocciante.
«Se stiamo insieme, Celeste nostalgia, Questione di feeling: abbiamo fatto insieme canzoni davvero belle. Ma mi piace ricordare Cervo a primavera, 1980, l’album che segnò l’inizio della nostra collaborazione e una svolta nella carriera di Riccardo. Ora stiamo lavorando a un nuovo progetto, un’opera pop su San Francesco».
Lucio Battisti.
«Christine Leroux, discografica francese che lavorava per Les Copains, me lo portò in studio e mi disse: “È bravo, dimmi che cosa ne pensi”. Lucio era riccioluto, timido, doveva crescere. Mi fece ascoltare qualcosa e io, senza mezzi termini, dissi: non è un granché. E lui: lo so».
Fu l’inizio di una grande avventura.
«Gli proposi di trovarci ogni giorno nel mio ufficio intorno alla mezza, per mangiare qualcosa e scrivere. La prima canzone che facemmo insieme è Dolce di giorno, la storia di una donna riluttante a concedersi. Poi vennero Per una lira e 29 settembre, che fu un trionfo. Lucio aveva molta stima di me e io di lui».
Fondaste la casa Numero Uno.
«L’addetta stampa era Mara Maionchi».
Ancora adesso gli italiani parlano come le vostre canzoni: «Tu chiamale se vuoi emozioni», «lo scopriremo solo vivendo»...
«In Italia ci sono decine di night club o motel d’amore che si chiamano Innocenti evasioni. Le canzoni nascevano in ufficio o nella casa di campagna al Dosso di Coroldo: lui suonava seduto sul divano, io scrivevo disteso sul tappeto».
Con «Motocicletta 10 hp» faceste infuriare le femministe.
«La storia di un uomo pronto a scambiare una moto per una notte d’amore: nelle mie intenzioni c’era di raccontare una persona debole, un po’ ingenua. Ma mi travisarono. Però, alla fine, tutti ascoltavano i nostri dischi, li trovarono pure nel covo delle Brigate Rosse in via Gradoli. Erano gli anni della contestazione, avevano contestato pure De Gregori, se non protestavi non esistevi. Però nessuno ci fece notare che una motocicletta 10 hp non è nemmeno un motorino».
Un errore?
«Sì. Come quando, in Eppur mi son scordato di te, scrissi “capelli verderame”. Era un lapsus: colpa dei vitigni piemontesi, perché quando la scrissi eravamo in mezzo alle vigne. La gente se n’è accorta vent’anni dopo».
Lucio Battisti era di destra?
«Non l’ho mai sentito parlare di politica, Lucio era al di fuori. L’equivoco nacque per l’espressione “planando sopra boschi di braccia tese” contenuta ne La collina dei ciliegi, immagine poi finita sulla copertina di un disco. Ma le braccia erano tese per il Signore, non per il duce».
Per chi votava Battisti?
«Era un individualista. Credeva nella libertà, nel merito. Non mi risulta che andasse a votare».
È vero, Mogol, che molte canzoni sono nate da sue esperienze di vita?
«Sì, per esempio Il mio canto libero. Mi sono sposato giovane, fu una decisione in parte concordata tra famiglie. Quando mi separai dalla mia prima moglie non fu facile, perché all’epoca gli uomini che lasciavano il tetto coniugale venivano isolati, emarginati. E infatti la canzone comincia con “In un mondo che non ci vuole più”. Invece Anche per te è dedicata a una ragazza madre».
«Per te, che è ancora notte e prepari il tuo caffè/ che ti vesti senza più guardar lo specchio dietro te»... E «29 settembre»?
«È la data di nascita della mia prima moglie, Serenella. Ma me ne sono accorto solo il giorno dopo, così come mi accorsi che era anche il giorno di San Michele Arcangelo, che ritengo il mio protettore. Mia madre diceva che sono nato con il sole in fronte: come dicevo, sono un uomo fortunato».
Quella canzone è la storia di un tradimento.
«“E ancora prima di capire mi trovai sottobraccio a lei. Stretto come se non ci fosse che lei”. Sì, è così».
Riguarda una sua vicenda personale?
«No».
Perché finì con Lucio Battisti nel 1980?
«Perché io rivendicavo un rapporto paritario nella distribuzione dei ricavi, cinquanta e cinquanta. Non andò così. E rompemmo, ma solo professionalmente: Lucio ha continuato a parlarmi anche dopo la sua morte».
Come?
«Un giorno la mia segretaria mi dice che una medium si è messa in contatto con Battisti e che lui, dall’aldilà, ha da consegnare una canzone per me, intitolata L’arcobaleno. Ovviamente non la richiamo, anzi reagisco con fastidio. Passano i giorni quando sulla copertina della rivista Firma del Diners Club vedo una foto di Lucio circondato da un arcobaleno».
E così cominciò a pensarci?
«Ne parlai con Celentano e Claudia Mori: avevo già in mente le parole, ma mi mancava la musica. A tavola c’era anche Gianni Bella, che disse di avere pronta una melodia. La ascoltammo, all’epoca c’erano le musicassette: era assolutamente perfetta per la canzone cui pensavo. Nacque così, di getto, L’Arcobaleno: la scrissi in quindici minuti, da Lodi a Milano. Mi mancava il verso chiave, quando l’autostrada fu attraversata da un arcobaleno che finiva proprio lì, sul cofano della macchina. Così scrissi: “L’arcobaleno è il mio messaggio d’amore/ può darsi un giorno ti riesca a toccare”. La pubblicammo nel 1999 nell’album Io non so parlar d’amore e diventò un successo di Adriano».
Com’è Celentano?
«Un grande amico. Dopo la pandemia ha scelto di fare vita ritirata, non riceve quasi più nessuno. Poco tempo fa mi ha mandato un messaggio molto affettuoso. Gli voglio bene».
Che ricordo ha di Gaber?
«L’ho scoperto io. Lo vidi per caso in un locale di Milano, il Santa Tecla, e gli dissi: “Sei bravissimo, vieni domani alla Ricordi che ti faccio fare un contratto”. Giorgio non venne. Così tornai al Santa Tecla: “Perché non sei venuto?”. E lui: “Perché pensavo che fosse uno scherzo”. Poi però a firmare il contratto alla Ricordi andò davvero».
Lei ha scritto anche per Mango.
«Un musicista straordinario. Anche lui mi ha parlato dall’aldilà».
Come?
«Ero in auto con mio figlio Francesco, il più piccolo. Lui mi disse che aveva voglia di farmi ascoltare tutte e quattordici le canzoni che avevo scritto per Mango, da Oro a Mediterraneo a Come Monna Lisa. Mentre passava la musica, in un cielo azzurrissimo e senza una nuvola, scorgemmo una cosa molto strana: un arcobaleno che andava quasi a incastrarsi in una roccia ricurva, come un cerchio colorato. Non riuscivo a credere ai miei occhi. E la cosa incredibile fu che, arrivati a destinazione, ci raggiunse la notizia che Mango era morto».
Quanti figli ha?
«Quattro: Alfredo, Mario, Carolina e Francesco».
Qual è il segreto della longevità? Lei ha da poco pubblicato un libro, «La Rinascita».
«È stato anche in testa alla classifica di Amazon. Leggete il sottotitolo: “La salute è il risultato di una cultura assimilata e applicata con rigore”».
Quale cultura?
«Con l’aiuto di alcuni tra i massimi specialisti, ho scritto il risultato di decenni di studi e di applicazione. In fondo, se sono arrivato a quasi novant’anni in piena salute e ancora attivo, qualcosa da dire ce l’ho».
Che cosa mangia di solito?
«A colazione il kefir con noci o nocciole, a pranzo tante proteine, soprattutto pesce, e una porzione di verdura, la sera un minestrone di verdure con albumi d’uovo».
Non ci dica che pure lei ha scritto un libro per spiegare che le carote crude fanno meglio delle animelle fritte.
«Ci sono cose buonissime che fanno bene, ad esempio i funghi. L’importante è evitare i dolci, bere pochissimo vino, e fare attività fisica regolare».
Gioca ancora a calcio? Lei ha fondato la Nazionale Cantanti.
«Mi sono operato alle anche da poco, sto facendo palestra. E pesi: ogni mattina tre serie da dieci chili per braccio. Non tutti sanno che tenere salda la massa muscolare è cruciale dopo una certa età».
Dorme molto?
«Otto ore per notte».
È per questo che non ha visto Sanremo?
«Anche per questo, sì. La canzone che ha vinto nemmeno la ricordo. Invece ho apprezzato molto quella di Simone Cristicchi: hanno malignato dicendo che si è inventato la malattia della madre, ma io la madre l’ho conosciuta, è venuta al Cet, il mio centro europeo di formazione musicale in Umbria. È tutto vero».
Le sue dichiarazioni su Giorgia hanno fatto discutere.
«Una montatura, mi hanno travisato. Giorgia è una grandissima artista, ha una voce straordinaria, e questo l’ho sempre riconosciuto. Adesso mi piacerebbe lavorare con lei. In Italia c’è un modo antico di cantare, in troppi urlano troppo. Invece bisogna essere misurati, per far arrivare l’emozione e la credibilità».
Per chi ha votato l’ultima volta?
«Forza Italia».
Come mai?
«All’inizio ho votato una volta Pci, poi socialdemocratico. Mi sentivo un liberale di sinistra, un riformista. Poi ho conosciuto una persona splendida, mio caro amico ancora oggi».
Chi?
«Maurizio Gasparri».
La prenderanno in giro per questo.
«Maurizio fa moltissime cose per gli altri. La comunità di don Gelmini per i tossicodipendenti è andata avanti grazie a lui. Fa tanta beneficenza, infatti ci siamo conosciuti a una partita di calcio benefica. Io non guardo tanto il colore politico, quanto le persone, e quello che fanno in concreto. Anche Dario Franceschini, quando era ministro della cultura, ha fatto cose molto buone».
E Giorgia Meloni?
«Mi sembra una che lavora dalla mattina alla sera».
Papa Francesco?
«Conservo una sua lettera, ancora oggi mi commuove. Gli mandai uno dei miei aforismi, fa così: “Come due fratellini disegnano la mamma in due modi diversi, così gli uomini Dio”. Il Papa mi ha risposto dicendo che questa frase gli fa bene e mi ha chiesto di pregare per lui, così come lui pregherà per me. Il mio sogno è scrivere con Francesco una preghiera universale, che valga per tutti gli uomini e le donne di questo mondo, senza distinzioni di lingua, religione, convinzioni».
Come immagina l’aldilà?
«Non credo che esista l’inferno: Dio è troppo buono per darci davvero il tormento infinito. Penso che lo abbia inventato per spronarci a comportarci bene».
E il paradiso come lo pensa?
«Pieno d’amore. Ho scritto una canzone dedicata a mia moglie Daniela, che è molto più giovane di me. Si intitola Dormi amore e racconta di un uomo che s’immagina come potrà tornare a far visita alla donna amata una volta che sarà morto. Immagino me stesso in un ritorno, come il vento che muove gli alberi. Non è questa la più grande forma d’amore?».