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 2025  aprile 19 Sabato calendario

Intervista a Juan Fernandez

La vita di Juan «Lobito» Fernández, 34 anni, playmaker argentino della Reyer Venezia, un passato nel basketball Ncaa con Temple e qualche presenza nella Nazionale Albiceleste, oggi è molto piena. C’è la pallacanestro, c’è la famiglia. E c’è una serie di apparizioni pubbliche in cui racconta la sua storia di resurrezione. Perché le giornate del Lobito non sono sempre state le stesse.
È il gennaio 2022. Juan è da dieci anni in Italia ed è un affermato giocatore della nostra Serie A, con la Pallacanestro Trieste. In quel momento la sua luce si spegne. E si accende quella della depressione. Seguono due anni di tormento, senza basket e non solo. Ma riprendersi è possibile. E Juan ce la fa. Dal 2024 è di nuovo un giocatore di serie A a Venezia. È un padre presente, un marito affettuoso e gira l’Italia per raccontare la sua storia. Cercando di dare una spinta a chi, al momento, non vede via di uscita.
Cominciamo dall’attualità. Ha visto il video in cui Chris Martin dei Coldplay parla della sua depressione?
«Sì, l’ho visto. Da una parte, mi rende felice che persone come lui diano peso al dibattito sul tema. Dall’altra, in certi commenti al suo post, vedo i giudizi negativi che ancora vengono dati su chi affronta il problema. Invece la discussione va indirizzata sempre di più sui binari della utilità e della positività».
Proviamoci. Torniamo al 26 gennaio 2022, quando Juan Manuel Fernández annuncia il ritiro dal basket.
«Era il mio quinto anno a Trieste, ero il playmaker titolare di una squadra che lottava per i playoff, avevo un buon rapporto con il club ed ero in una città che mi voleva bene. In più, c’era la famiglia che cresceva, i due bambini e un buon matrimonio. Un ottimo momento».
Solo che?
«Quello che c’era fuori non era quello che sentivo dentro. Il che generava in me un senso di colpa e di confusione che mi portava sempre più giù».
Cosa le ha fatto dire: «È il momento di fermarsi»?
«Quando arrivai a dire: vorrei infortunarmi pur non giocare più. Lì ho capito che non potevo andare avanti».
Pensiero estremo, per un atleta professionista.
«È stato il campanello d’allarme che mi ha spinto a coinvolgere mia moglie. E lei ha preso le decisioni che non stavo prendendo io. Senza di lei, non sarei andato oltre. Anche nel malessere si trova una comfort zone: stai nel dolore, non ti muovi, anche se fa male. Serve una spinta».
Avete due figli, di 9 e 7 anni. Durante quel periodo si è mai sentito in colpa nei loro confronti?
«Sì. Ai bambini ho sempre detto di puntare alle cose che li fanno stare bene, che danno gioia. Ma io non provavo più alcuna gioia in quello che facevo, e mi pesava comportarmi in modo opposto al messaggio che volevo dargli. Poi c’è stato il senso di colpa nei confronti di mia moglie. Da “fuori” è facile confondere il fatto che uno stia sdraiato in camera, al buio, tutto il giorno, con la voglia di non fare niente. In realtà non hai veramente le energie per alzarti e fare una passeggiata con la tua famiglia. Ora, che vedo tutto con più chiarezza, capisco quanto sia difficile un’esperienza del genere anche per chi ti sta accanto».
Come ha vissuto nei due anni di blackout?
«Inizialmente abbiamo deciso di spostarci in Florida, dove vive la famiglia di mia moglie. Ho cercato un lavoro, ma volevo qualcosa che non avesse niente a che fare con il basket. Ho iniziato in un’agenzia di viaggi di Orlando. Tutto sembrava andare per il meglio: l’ufficio, i bambini che avevano iniziato la scuola... All’inizio i cambiamenti portano sempre energia nuova, ma a un certo punto mi sono reso conto che non aveva senso il cambiamento esterno, se dentro di me non avevo risolto niente».
Quindi?
«Ho iniziato a farmi seguire, da una psicologa e da un mental coach. Ho anche deciso di iniziare io stesso, un percorso di studio: volevo aiutare chi era nella mia stessa situazione ma non avevo le conoscenze per farlo».
E il basket come è tornato nella sua vita?
«Più o meno un anno dopo il ritiro, ho voluto sapere che posto avesse ancora nella mia vita. Non sarei stato felice di chiudere così la mia storia di pallacanestro. Quindi sono entrato in un’accademia sportiva in Florida come viceallenatore di ragazzini. Per vedere se riuscivo a riprovare certe sensazioni che sentivo di aver perso. Da lì è iniziato un percorso che poi, piano piano, mi ha portato a voler tornare a giocare».
Qual è stata per lei la strategia più utile?
«Non guardare troppo avanti. Cercando di scoprire perché ero a quel punto. E poi ascoltarmi, conoscermi. E dire: “Ok, oggi mi serve questo”. Senza aver paura di cambiare al bisogno».
Ha mai avuto bisogno di assumere farmaci?
«Io ho scelto di non prenderne. Però conosco casi, di atleti e no, dove senza i farmaci il percorso sarebbe stato proibitivo».
Si è mai detto in quei due anni: «Non finirà mai?».
«No. Però ancora oggi, nei momenti di difficoltà, durante gli infortuni che ti buttano giù, capita di dire: “Mamma mia, non di nuovo”».

Cosa ha provato la prima volta che è tornato in palestra?
«Grande timidezza. Poi, poco alla volta, ho sentito che in campo non provavo sensazioni negative. Quindi, è successo il resto».
Quando ha deciso di raccontare la sua storia, come reagito l’ambiente del basket, dello sport?
«Ho trovato tantissimo supporto. Sono discorsi delicati e, soprattutto nel mondo dello sport, tabù. Però allo stesso tempo c’è la consapevolezza che serve cambiare».
Tutto è iniziato con una video intervista del blog La Giornata Tipo, in cui, per la prima volta, raccontava cosa le fosse successo. Poi sono arrivate le tv, i convegni... Si aspettava un tale riscontro?
«No. Ancora oggi ricevo centinaia di messaggi da persone che si sono identificate e sentite meno sole».
Si sente un sopravvissuto o un rinato?
«Un rinato, decisamente».