Corriere della Sera, 19 aprile 2025
Ernestina, figlia di Giuseppe Saragat: «Il rapimento Moro lo sconvolse, avrebbe voluto trattare con le Br. Era così alto che per una foto Kennedy salì su un gradino»
«Dove i rapporti sono umani la democrazia esiste, dove sono inumani, essa non è che la maschera di una nuova tirannide». È la storia di una vita che gli consente di chiudere in poche parole un concetto così denso, una lezione per il presente e per il futuro. Giuseppe Saragat, un padre fondatore della nostra Repubblica. Artigliere nella Grande Guerra, socialista da giovanissimo, cresciuto alla scuola di Claudio Treves e Filippo Turati.
Strenuo antifascista, interrogato dai tedeschi in via Tasso, chiuso nel braccio della morte di Regina Coeli, presidente della Costituente, ambasciatore a Parigi, ministro degli Esteri, più volte vicepresidente del Consiglio, primo socialista a diventare Capo dello Stato, severo accusatore della dittatura sovietica, atlantista, europeista, teso a indicare alla sinistra la strada della socialdemocrazia. Scrisse Indro Montanelli: «Era allergico ai riti della politica, ma ridiventava sé stesso quando si profilava un problema di dottrina o di alta strategia: e allora era un monologo in cui rilucevano, con le qualità d’intelligenza e di cultura, quelle di carattere e di fermezza di questo vecchio militante senza macchia e di vasta esperienza internazionale». Quello che sarebbe diventato il suo lascito, gli era già chiaro nel ’29, quando scrisse a Carlo Rosselli: «Il problema è tutto qui: o riusciremo a portare gli operai sul terreno della lotta per la rivoluzione democratica o non faremo nulla di buono».
Parliamo di lui nella casa di Roma con sua figlia Ernestina, quasi 97 anni straordinariamente portati. Con lei ci sono i suoi figli e nipoti di Saragat: Augusto, Scina e Pietro.
Signora Ernestina, che padre era Giuseppe Saragat?
«Bravissimo, affettuoso, a me, poi, lasciava fare tutto quello che volevo. Sono nata a Vienna, dove mio padre si era rifugiato, poi Parigi. Quando alla fine tornammo faticavo a parlare in italiano».
Come furono quegli anni?
«Non avevamo niente, ma stavamo benissimo. Passavamo il Natale con Pietro Nenni, con Carlo e Nello Rosselli. Quando i fratelli Rosselli furono assassinati nel 1937, su ordine dei fascisti, mio padre era disperato».
La sua battaglia lo portava lontano per tanto tempo.
«Per anni. Ci voleva distanti per ridurre i rischi per la famiglia. Mia madre, Giuseppina Bollani, gli diceva: “Vai e non preoccuparti, che qui ci penso io”».
Morì nel 1961.
«Soffriva di cuore, ma ad ucciderla fu una trasfusione sbagliata. Mio padre non fece nulla contro quell’errore. Diceva, addolorato: “Tanto non può tornare indietro”. Fu un colpo terribile, uno smarrimento durato mesi. Dopo la morte, con mio marito Gianni Santacatterina e i nostri figli, andammo a vivere con lui».
Leggeva molto.
«Fin da giovane. I classici. Amava Leopardi, Shakespeare, Goethe, Dante. Citava passi a memoria e chiedeva ai nipoti: “Chi lo ha detto?”. Sbagliavano quasi sempre e si rideva. Diceva: “Quante braccia rubate all’agricoltura!”. Conosceva il pensiero di Marx, aveva scritto nel ’36 “L’umanesimo marxista”, e studiato Il Capitale: “Sono uno dei due italiani che lo hanno letto, e l’altro non è Togliatti”».
Gli anni bui, l’arresto a Bardonecchia nel ’43.
«Fu liberato per la pressione di Bruno Buozzi su Pietro Badoglio. Che dolore quando fu assassinato dai nazisti nel 1944 a La Storta. Mio padre disse che non solo lui perdeva un amico caro, ma che lasciava orfana la sinistra e il sindacato».
La fuga rocambolesca da Regina Coeli.
«Lui e Sandro Pertini erano stati portati a via Tasso, e poi trasferiti a Regina Coeli nel braccio dei condannati a morte. Giuliano Vassalli e Massimo Severo Giannini falsificarono i documenti di rilascio, aiutati dal medico del carcere, Alfredo Monaco. Ci fu un momento drammatico, Saragat e Pertini non avevano capito che stavano liberando anche gli altri che erano rinchiusi con loro, e si rifiutavano di fuggire da soli. E il tempo correva…».
1947, la scissione di Palazzo Barberini.
«Si dimise da presidente della Costituente, dopo la scissione che portò alla nascita della via italiana alla socialdemocrazia. Gli piovvero addosso accuse di tradimento del socialismo. Non ebbe mai incertezze sul no al Fronte popolare e sulla sua svolta politica. Momenti di gelo, ma difese sempre i rapporti personali, con rispetto e affetto. Mi diceva: “Guarda, c’è Nenni, vai a salutarlo”».
I fatti d’Ungheria.
«La sua condanna fu senza appello, il suo no a ogni totalitarismo granitico, mentre per smuovere il Pci ci vollero i carri armati a Praga. Aveva appreso a Vienna, da Otto Bauer, degli orrori delle purghe e delle deportazioni staliniane».
Quel colloquio al Quirinale, con Moro e il presidente Segni, che poco dopo ebbe l’ictus che lo portò alle dimissioni.
«Tante speculazioni su quell’incontro, quando poi vennero fuori i piani golpisti del generale De Lorenzo. Ma mio marito glielo chiese riservatamente e lui rispose che avevano parlato solamente di avvicendamenti di alcuni diplomatici. Certo, poi fu lui, nel 1967, da Presidente della Repubblica, a volere la destituzione del generale De Lorenzo».
Il fallito golpe di Junio Valerio Borghese.
«Si disse che nel piano era compreso il rapimento di mio padre. Lui ne aveva passate tante, e non prese troppo sul serio quello che considerava un golpe da operetta».
Presidente della Repubblica al ventunesimo scrutinio.
«Fu una maratona, con tanti candidati: Leone, Terracini, Fanfani, l’amico Nenni».
Il rapimento Moro.
«Lo sconvolse. Allora abitavamo in quella zona, lo incrociavamo frequentemente. Quella mattina andai di corsa a prendere mio figlio Augusto al liceo. Mio padre era già un po’ fuori dalla politica, pensava che quell’esperienza si fosse chiusa con il Settennato. Ma era assolutamente convinto, e lo disse, che lo Stato dovesse aprire una trattativa con le Brigate rosse. Pensava che fosse profondamente sbagliato rispondere all’attacco allo Stato lasciando Moro nelle mani dei suoi carcerieri. Non fu ascoltato. Devo avere qui, da qualche parte, la lettera che Aldo gli scrisse».
Che cosa diceva?
«Fu ritrovata postuma nel covo delle Br. Ringraziava mio padre “nel modo più vivo per le alte e nobili parole con le quali hai voluto esprimermi la tua comprensione e solidarietà. Tutto ciò mi conforta e mi incoraggia molto nella difficilissima prova”».
Gli imposero una scorta della Digos.
«Non la voleva. Soprattutto non sopportava che dei ragazzi rischiassero la vita per causa sua. Riuscì a farsela togliere».
I viaggi, spesso con lui, quando era Capo dello Stato.
«Ricordo la regina Elisabetta, molto gentile, con lei parlavamo in francese».
John Fitzgerald Kennedy.
«Mio padre era molto alto. Sorrise quando lo vide guadagnare un gradino, al momento della foto».
Richard Nixon.
«Portò ai suoi nipoti, Augusto e Pietro, dei vestiti da cow boy, se li mettevano a carnevale. A Scina regalò una casa con delle bambole».
Lyndon Johnson.
«Gli riportò lo sconcerto dell’opinione pubblica italiana per i bombardamenti in Indocina».
Shimon Peres.
«Era un grande amico di Israele, Peres venne a casa nostra a trovarlo. Mio padre fu anche il primo presidente ad andare ad Auschwitz».
Un difetto.
«Era spesso molto brusco con i suoi interlocutori. Non era un demagogo. È un pregio, lo so, ma anche un difetto. La sua incapacità di interessarsi al consenso gli impedì di conquistare le masse con le sue idee».
Saragat e i giovani.
«Gli amici dei suoi nipoti, quando venivano erano intimiditi. Ma lui li metteva a loro agio. Diceva che dovevano imparare l’inglese, che sarebbe diventata la lingua del futuro. E poi chiedeva: “Lei che cosa vuol fare da grande?”. Gli piaceva dire: “State buoni se potete”. E poi si raccomandava sempre di non essere prepotenti con i ragazzi più deboli. Poi certo, era un uomo del suo tempo, e non si occupò più di tanto del ‘68».
Il rapporto con la religione.
«Diceva: “Non possiamo non dirci cristiani”. Un rapporto affettuoso con Giovanni XXIII, padre Rotondi veniva a trovarlo. Il suo funerale si svolse in chiesa, poi il feretro fu portato a Palazzo Madama».
Gli anni dopo il Settennato.
«Venivano i dirigenti del Psdi a chiedergli consiglio su cose organizzative e lui parlava di cultura, e poi, un po’ annoiato, li accompagnava alla porta. Lo perseguitava il senso di colpa per la morte della moglie, si rimproverava per le fatiche che aveva dovuto affrontare durante i suoi anni rivoluzionari».
L’ultima ora.
«Eravamo tutti al suo capezzale, io, mio marito, i nostri figli. La sua ultima parola fu: “Mamma”. Si riferiva a mia mamma, la sua Giuseppina. Venne Pertini, e mise sul suo letto una rosa rossa.