la Repubblica, 19 aprile 2025
Intervista a Diego Abatantuono
Arrivare a compiere 70 anni, come Diego Abatantuono farà tra un mese esatto (la scadenza precisa è il 20 maggio, “ma per favore, non me lo ricordi”) vale la pena per diversi motivi.
Vogliamo parlarne?
“Siamo qui apposta, no? Il primo è che l’unica alternativa che si conosca all’invecchiare è ben peggiore. Il secondo è l’aver vissuto una metà abbondante della propria vita come meglio non si potrebbe. Io davvero non ho rimpianti, non ho pentimenti. E sa perché? Perché da sempre quando sono felice io me ne rendo conto. E me la godo assai più di chi lo capisce solo anni dopo, quando le cose vanno male, e dice: “ero felice e non lo sapevo”. Ecco, no, io lo sapevo e lo so, ho lasciato che la vita mi tirasse in ballo, senza negarmi un amico, una cena, una gioia”.
E allora, eccoci alla felicità. Cominciando magari da quella privata, per poi dedicarci a quella artistica.
“Le due cose però si intrecciano. Io ho una famiglia meravigliosa, sono stato con donne splendide e abbiamo avuto figli di cui essere orgogliosi, intelligenti, il massimo della gioia per me è quando qualcuno mi dice che sono brave persone. E per stare con la famiglia ho anche rinunciato a un pezzo di carriera: non ho mai accettato film da girare in estate proprio per non perdermi le vacanze tutti assieme. Ma tanti grandi attori come rimpianto dicono proprio di non essere stati abbastanza con la famiglia: io no”.
La felicità artistica comincia con una parolina: Derby. Lei ha avuto la fortuna di bazzicarlo fin da bambino: suo zio Gianni fondò il tempio del cabaret milanese, sua mamma Angela ne era la guardarobiera.
“Fortuna, sì, ma i treni non vanno solo pigliati al volo, bisogna anche saperci restare sopra, servono intelligenza, senso dell’osservazione e la capacità di distinguere tra giusto e sbagliato, e senza false modestie sono doti che ho. Poi è chiaro, passare giorni e notti con Fo e Jannacci, Cochi e Renato, Paolo Villaggio è stato un’università di vita. Sono il più colto degli ignoranti grazie a quello che ho imparato da loro, ma in generale da quel clima umano. Insomma, mancano anche persone come Biofa e il Bistecca”.
Urgono dettagli.
“Fabio Cappellotto, detto Biofa, era un camionista che aveva sempre battute pronte come “Si potrebbe andare tutti al mio funerale”, che le ricorderà qualcosa, oltre che il titolo di un mio libro del 2022. Il Bistecca faceva di professione lo spettatore del Derby: aveva un tale sense of humour che tutti speravamo nella sua risata, voleva dire che funzionavi come comico. Non aveva problemi economici perché sua madre morì, ma lui si tenne il cadavere in casa, tipo Psyco, e per anni incassò la pensione”.
Tra i nomi del Derby va citato Giorgio Porcaro, e ormai si può dire la verità: chi dei due inventò il personaggio del terrunciello? C’è chi la accusa di aver copiato da lui.
“Se nasci e cresci al Lorenteggio, quartiere milanese allora popolato quasi solo da immigrati pugliesi è inevitabile assorbire certi accenti, certo slang. Insomma, il terrunciello era nell’aria, ma Giorgio mescolava tante provenienze meridionali, io solo la pugliese. Certo, tutti e due facevamo quello che arrivava a Milano e cercava di diventare più milanese dei milanesi veri. Tipo una signora che vedevo a Milano e che un giorno rividi a Vieste in estate coi miei genitori: era tornata anche lei in Puglia e girava col cappotto in agosto per darsi un tono da nordica”.
Parlando di Puglia e genitori: è vero che sua madre sconsigliò Arbore dal vederla?
“Sì, ma spiego. Lei, guardarobiera, era amica di tutti, anche di Renzo. Ma non pensava mai che avrei fatto il comico, mi trovava troppo aggressivo col pubblico. Quando lui venne al Derby, lei fece finta di non sapere chi fossi, tirava fuori un nome, poi un altro, quindi ammise: “è mio figlio, ma non guardarlo, è uno scemo”. Con Renzo dovevo fare anche L’altra domenica, l’inviato dal Bar sport, ma pare che una ragazza con cui avevo una storia ai tempi stesse con un regista Rai, e saltò tutto”.
Ai tempi lei fu comunque un ciclone: 14 film in un anno nel 1980, neppure Totò o Franco e Ciccio dei bei tempi.
“Risultato: il terrunciello totalmente prosciugato come personaggio e un commercialista che non mi pagò le tasse. A posteriori, un bene: mi dovetti inventare qualcos’altro per risorgere”.
Ci pensò Avati con Regalo di Natale nel 1986.
“Anche qui, il caso. Primo, il ruolo era di Lino Banfi, che rifiutò, credo per il bene anche suo. Secondo, Pupi telefonò al numero di una mia ex trovandomi solo per pura coincidenza. Un altro treno preso al volo, ma poi sfruttato”.
Eccome. Poi basta dire Salvatores.
“Amico di una vita, Marrakech express, e l’Oscar con Mediterraneo. Ne vuole sapere una su quella vittoria?”.
Anche due.
“E allora due. Uno, dovetti noleggiare lo smoking per la cerimonia. Il primo che provai mi stava a pennello, e seppi che l’aveva usato il mio idolo Sean Connery in uno 007. Pensi che fisico avevo allora”.
Due?
“In ascensore in albergo mi trovavo davanti Burt Reynolds, di cui si dicevano che avesse il parrucchino e fosse gay. Sulla prima, credo di poter confermare. Sulla seconda, continuava a farmi sorrisetti e faccette strane, pensai che ci stesse provando. Solo al pianterreno, voltandomi, capii che salutava Danny De Vito, che stava dietro a me e che piccolo com’era non avevo notato”.
Nei compleanni con lo 0 si fanno bilanci. Le è mancato qualcosa? Magari la regia, o il teatro?
“Ho fatto entrambi. Ma da regista devi importi avendo il pelo sullo stomaco. Mentre a teatro scarichi la tensione ogni sera sul palco, io sono fatto per vivere su un set, anche con tempi lunghi, conoscere tutti, parlare, cenare, vivere quel pezzo di vita insieme agli altri”.
La convivialità lei la vende anche, con i suoi ristoranti Meatballs.
“Le polpette sono un cibo universale e di tradizione. E mio figlio Matteo, che li gestisce, ci mette l’anima per mantenere un clima umano e simpatico”.
Sembra uno senza rimpianti.
“Beh una volta stavo meglio ma ero più bello, più agile, più giovane. E non voglio fare il nostalgico. Ecco, noto che col passare degli anni si stanno svilendo le differenze: Giovannona coscialunga una volta era una cagata, adesso è un cult”.
Possiamo chiudere turbando la sua gioia di vita col Milan?
“Che turbamento è? Il Milan mi sta nell’anima fin da quando ero bambino e abitavo nello stesso condominio di Gianni Rivera. Non va benissimo, oggi, ma ho goduto così tanto in passato… Adesso posso solo fare i complimenti ai miei amici interisti che stanno per vincere il Triplete, anzi l’hanno già vinto. Un traguardo che si sono inventati loro perché prima non esisteva, ma sono dettagli”.