La Stampa, 20 aprile 2025
Intervista a Ubaldo Pantani
Uno e trino (col riporto di due, moltiplicato per undici), tanti sono i personaggi che interpreta e imita e sbeffeggia e rappresenta. Ma non ci sono soltanto i vari e infiniti personaggi famosi. Ci sono anche persone normali, conosciute per caso, o i rinchiusi del Grande fratello. E non ci sono trucchi, né trucco, nel senso che è l’ultimo aspetto che considera. Ubaldo Pantani da Cecina naviga tra programmi televisivi che fanno ascolti, teatri e la sua terra. Uno, nessuno e centomila, insomma. L’intervista avviene con una videochiamata mentre il comico-autore-imitatore-attore inventa nuovi bersagli camminando con una maglietta della Spal addosso, ma (anche) di questo ne scriviamo tra poco. «Sì, adoro fare passeggiate perché penso a varie cazzate e invento cose nuove o modifico cose vecchie».
È ricominciato da poco il GialappaShow. E anche qui lei la fa da protagonista. Ci sono nuovi “famosi” nel mirino?
«Già dalla prima puntata ho rifatto Cacciari. Mi diverte molto farlo, è una presenza fissa nel panorama televisivo, è un uomo che vive in collegamento. Mi fa ridere, dà l’impressione che tra un attimo si inneschi un corto circuito e lui si arrabbia come pochi. Poi al Gialappashow facciamo un’edizione del Grande fratello Rip, più che vip. Uno sketch collettivo e corale che celebra Luca Giurato, altra persona che mi ha segnato e mi manca. Altri, invece, si possono vedere e ascoltare al tavolo di Che tempo che fa, la domenica sera, ed è un’altra situazione nella quale mi diverto molto perché c’è molta improvvisazione e Fazio è bravissimo».
La sua prima imitazione.
«Mumble mumble, dunque, vediamo, oddio. Ah sì, rifacevo Gigi Sabani e personaggi sconosciuti del mio paese, Ponte Minori, provincia di Pisa. Era un villaggio operaio della Solvay, un micromondo, un misto tra Topolinia e una città dell’Est Europa dove, appunto, c’erano soggetti fantastici. Una sorta di set cinematografico, tra Springfield e Cernobyl prima della tragedia. Ho avuto un’infanzia divertente».
Quanto studia?
«Cammino, leggo, ascolto. Studio inteso come osservazione maniacale dei personaggi che imito no, perché cerco di non replicare fedelmente e meccanicamente, mi basta quello che cattura la mia mente per poi divertirmi a stravolgerlo e caricaturarlo. Non sono un imitatore in senso tecnico. Lo dico con rispetto, ma non è il mio mondo. Io sono un comico che imita, è diverso. Non c’è una perfezione tecnica, è un approccio parodistico per far ridere, poi con la voce e le movenze cerco di riproporre uno o un altro il più fedelmente possibile».
Come nasce l’idea di scegliere tizio o caio?
«Beh, da un senso di irritazione divertita. Cioè quando l’indignazione ti fa intravvedere il paradosso di un personaggio, quando un personaggio è realmente negativo. L’humus principale deve essere quello “dai, non è possibile che arrivi a questo punto”. Qui scatta la molla, come si dice?, il terreno fertile. Generalmente mi fa ridere la vanità malcelata. Soprattutto in categorie insospettabili come politici e giornalisti. I conduttori televisivi hanno una vanità pazzesca. Sono quelli che amano le luci dello spettacolo più che la notizia».
I suoi preferiti.
«Capirai, è come domandare a quale figlio vuoi più bene. Dico Lapo Elkann perché l’ho anche conosciuto e gli voglio molto bene. Poi quelli che faccio un po’ meno, vedi Mirabella, Augias... Ah, un altro che voglio ritirare fuori è Odifreddi. È fantastico, per lui è sempre colpa del Vaticano, mi fa impazzire». (Dice con la voce appunto dello scrittore).
Ma non le capita di avere uno sdoppiamento della personalità?
(Soffia a lungo). «No, ma di dietro ai personaggi ci sono sempre io anche se il trucco mi fa scomparire. Alcune espressioni sono mie, è una terza maschera. Mi capita di guardarmi e dire: “Però, ma sembro Giletti o Allegri”. Quando mi incazzo giocando a calcio divento Allegri ma in realtà sono sempre io».
E qual è la sua vera voce?
«Questa. Una voce che non come timbro ma come cadenza ho cercato di costruire negli anni, perché uscito dal paesello detestavo che mi facessero il verso. “Oh sei un toscano”. Dice: ma come tu prendi per il culo e poi se provano a imitarti ti scocci? Sì. Molto. Tanto. Il modo di parlare è cambiato quando avevo 25 anni, a Roma. Nel primo programma a cui ho partecipato, Macao, cercavo di parlare italiano pur mantenendo l’influenza. Quando mi prendevano in giro per il mio accento tiravo giù la qualunque, la ritengo una cosa aggressiva».
Chi l’ha scoperta?
«Boncompagni. Si è preso un’enorme responsabilità. La prima edizione fu un successo. Al secondo anno, nel ’97, si presentarono centinaia di comici, allora c’erano sei canali nazionali, non c’era internet, una trasmissione del genere era ambitissima. Mi presentai con personaggi di fantasia. Uno era il protocollista del comune di Ponsacco dove facevo l’obiettore di coscienza. Un altro era il profeta del cabaret folle, tutto inventato. Boncompagni mi fece una marea di domande surreali. “Parlami del cabaret norvegese”. Era solo improvvisazione, voleva questo, il colloquio durò una vita tra il gelo degli astanti. Mi presero. Poi, in realtà, nel ruolo del comico d’avanguardia presero Brignano quindi virai su un’archeologa americana che parlava lentissimamente e su altri soggetti inventati e folli in uno stille boncompagnesco. Peraltro non avevo fatto mai il comico. Ero un super fan degli Skiantos, ero tra la via Emilia e il West, tra la Spal e Guccini».
Fonte wikipedia. Ha indossato i panni, la voce, i gesti di più di cinquanta personaggi. Ci fa la sua top ten?
«Oh madonna, che imbarazzo! Diciamo quelli a cui sono affezionato perché sono invecchiato con loro. Lapo di sicuro, poi Giletti, Buffon, Del Debbio, Cacciari, Shatto che è uno che non esiste, Insinna, Mario Giordano, Odifreddi, Allegri, Spalletti, Vespa. Sono più di dieci ma non posso non mettere anche D’Agostino».
Che cosa farà domani?
«Le prove con la Gialappa’s e l’otto maggio comincio un tour con uno spettacolo teatrale nuovo che si chiama “Inimitabile”».
E da grande?
«Il mio vero e unico sogno professionale è diventare il Frassica dei personaggi, vorrei fare come lui che oltre a essere un comico che interpreta alla grande ruoli che gli hanno allungato la carriera. Dalle fiction al cinema».
Ricominciamo daccapo. Una curiosità. Perché un toscano è tifoso sfegatato della squadra di calcio di Ferrara, la Spal, tanto da aver fatto cose assurde per festeggiare dei trionfi sportivi?
«Perché amavo le figurine. Per la maglia meravigliosa della Spal (strisce sottili biancazzurre), per il nome magico, perché al mitico stadio Paolo Mazza ci giocava Tagliaferri che era un amico di papà. Nel settembre del ’79 mi portarono a vedere in gradinata Pisa-Spal, lì mi sono ammalato ma per le mie origini è una partita che non soltanto non vedo più, per me proprio non esiste. L’anno della salita in serie B avevo promesso che se fosse successo sarei andato da Pisa al Monte Serra a piedi. Ebbi una crisi di sete che per poco “non ci tiro il calzino”. L’anno dopo avevo assicurato che se la Spal fosse andata in serie A avrei fatto Pisa-Ferrara in bicicletta. Fatto! Arrivai in due giorni al centro d’allenamento a trovare il grande mister Semplici e i ragazzi. Ora non è aria, ma il mio sogno è di poter rifare queste imprese».