Il Messaggero, 19 aprile 2025
Intervista a Jovanotti
Lorenzo Cherubini è molto più di un soprannome e sta con noi da quasi quarant’anni. Ha sorriso spesso, ma non è uno stolto. Ha cantato tanto, ma non ha perso la voce. È cambiato, ma più probabilmente è rimasto lo stesso.
Dario Brunori sostiene che lei racconti la felicità come nessuno.
«Da sempre tento di raccontare le cose, ma non sono bravo a farlo e forse sono più adatto a evocarle. La felicità non mi appartiene costantemente, ma la conosco, l’ho vista apparire, la frequento e do retta a Vonnegut».
Quando siete felici fateci caso.
«Sono stati d’animo che arrivano e se ne vanno rapidamente. La felicità è un vento che ogni tanto mi accarezza, quando soffia provo a respirarne l’aria».
E a metterla nelle canzoni.
«Quando canto canzoni allegre sento di essere nel mio elemento e trovarmi in ciò che mi è congeniale. Star bene e guardare al bello è in fondo la mia aspirazione più profonda. Le canzoni romantiche che parlano della bellezza dell’amore o del romanticismo sono poche, mentre sulla fine del sentimento ne trovi quante ne vuoi. A me piace l’euforia, quell’epifania amorosa che è superiore a tutto: essere in due, bastarsi, volersi ancora, ogni giorno. Mi è successo, è la mia fortuna e la benedico».
I suoi genitori sono restati insieme per tutta la vita.
«Facevano parte di una generazione in cui non c’era scelta. Quando ero bambino speravo si mollassero perché, forse sbagliando, avevo l’illusione che se si fossero lasciati sarebbero stati entrambi più felici. Litigare era il loro linguaggio. Li sentivo discutere spesso, ma mia sorella sostiene che esistesse tra loro un’intesa fisica molto forte e che a tenerli insieme fosse il reciproco desiderio».
Ha mai confessato ai suoi genitori che sognava si lasciassero?
«Non gliel’ho mai detto, ma penso lo immaginassero. Erano due ragazzi cresciuti in un paesino della Toscana in cui non succedeva niente. Vanno a scuola insieme, si fidanzano presto e a 19 anni, lui viene preso per fare il gendarme in Vaticano. Arriva a Roma, lei lo raggiunge e in quattro e quattr’otto nasce un bimbo. Una coppia molto tradizionale in cui la mamma è passivo-aggressiva e il mio babbo, nei toni, è solo aggressivo. Dico queste cose con amore perché il mio babbo non è mai stato un violento».
Una sberla non le è mai arrivata?
«Minchia, sì, eccome: qualche calcio nel culo l’ho preso. Più che altro per le bugie, una volta tornai a casa mezzo rotto, con tutte le ginocchia sbucciate. Ero caduto in motorino e dissi che un furgone guidato da una suora e pieno di suore mi aveva messo sotto: “Queste stronze” aggiunsi. Lui ci pensò, poi indagò, andò all’incrocio tra Via Monte del Gallo e Via Gregorio VII e quando capì che gli avevo raccontato una balla si incazzò moltissimo. Non per la caduta in sé, ma perché avevo coinvolto chi non c’entrava niente».
Inventare ha a che fare con la fantasia?
«Senz’altro. Una fantasia che ho alimentato. Da bambino ero un grande consumatore di schifezze alimentari, favole, fumetti e televisione. SuperGulp!. Era un appuntamento imperdibile: Nick Carter, Sturmtruppen, Alan Ford, il gruppo TNT. A me quella roba piaceva molto ed è continuata a piacermi anche da adulto: Bonelli è stato un editore importantissimo. Zagor, Dylan Dog e Martin Mystère: nei primi anni 80, l’unica letteratura che leggevo era quella. Ma il cinema e la tv del tempo erano già letteratura».
Folgorazioni?
«Eterogenee. Amavo i comici e guardavo in tv il Non-Stop di Enzo Trapani con Verdone e Troisi. In quegli sketch c’era una scrittura straordinaria, ma non mi perdevo neanche Fantozzi, i film con Terence Hill e Bud Spencer, quelli sul Kung-fu o Amarcord e La dolce vita. Mi nutrivo in maniera sgrammaticata di tante cose».
Il suo primo libro?
«Forse Siddharta e poi La linea d’ombra di Conrad, uno dei miei scrittori preferiti. Il mio babbo credeva che avessimo bisogno dell’educazione che lui non aveva ricevuto, così in aggiunta ai fumetti ci faceva leggere i libri che non acquistava in libreria, ma alle aste giudiziarie. Qualcuno in un angolo del mondo falliva e noi in casa ci ritrovavamo sepolti da libri magnifici, spesso fotografici o d’arte. Più leggevo e più mi accorgevo della mia ignoranza: una scoperta positiva che mi dirigeva ovunque, in molte direzioni e in maniera libera nel tentativo di colmare i buchi. Non era ancora un tempo influenzato dalla dittatura dei numeri, degli algoritmi e delle profilazioni. Si poteva andare a caso e immaginare una strada propria. Immaginare è una cosa grande: senza, siamo quasi niente».
Che adolescente è stato?
«L’adolescenza è un’età tragica. Un passaggio in cui il giudizio degli altri è così importante da suggerirti il conformismo. È un affare molto complesso, una prova di sopravvivenza. Che poi non so neanche se sono stato un vero adolescente, io: non ho fatto gruppo, non ho avuto una banda, un muretto o un bar di riferimento. Avevo la musica e la voglia di avere successo e diventare qualcuno. Non qualcuno di importante, ma qualcuno per me stesso».
Lei in casa era il terzo figlio.
«Esserlo per me è stato un vero colpo di culo. Ero quasi invisibile perché l’entusiasmo i miei l’avevano già speso tutto: mi hanno lasciato proprio libero. Non sentivo addosso pressioni né aspettative».
È stato un ragazzo coraggioso oltre che fortunato?
«Da bambino ero il pagliaccio di casa, da ragazzino invece quello che si gettava nelle cose e che adorava perdersi nella folla senza paura né timori: a San Pietro la domenica mattina, durante la funzione o ai concerti di massa. Ci andavo già ai tempi della scuola, ben prima dell’esame di maturità».
Che superò.
«L’insegnante di inglese mi disse di parlare un argomento a piacere e io scelsi Quelli della notte, il programma di Arbore. La professoressa era stupita, io forse persino di più».
Come ricorda gli anni delle tasche vuote?
«Per tirare su due lire ho fatto un po’ di tutto. Il cameriere alle sagre dove si prendevano mance non indifferenti, lo scaricatore di legna in estate, ma anche lo sverniciatore da un tipo che acquistava mobili usati a Cortona. Gli chiesi: “Posso lavorare qui?”, lui mi mise in mano due spatole e mi insegnò il mestiere. Forse ero sfruttato, ma non mi ci sentivo. Imparavo qualcosa, mi pagavano e quel profumo lì, come quello della benzina, dava anche un po’ alla testa. Non era poi così male».
Lavorò anche come barista.
«Nel bar di mia zia che era tornata dal Canada e da emigrante fortunata aveva comprato un bar in paese. Andavo la mattina molto presto in Via Nazionale, a Cortona, accendevo la macchina e facevo i caffè. L’ambizione di guadagnare ed essere indipendente è sempre stata una molla: volevo andarmene da casa il prima possibile. A Natale, quando mi regalavano le sciarpe ero deluso: “datemi i soldi” pensavo “che le cose vado a comprarmele io”».
Su di lei hanno cambiato idea in tanti. Prima di apprezzarla, Michele Serra aveva parlato di «lobotomia musicale».
«Non mi sono mai offeso e capivo che faceva parte dello spettacolo che offrivo. Ero una novità e andavo in scena in maniera un po’ imbarazzante: vitale e scatenato, ma senza controllo. Facevo le cose in maniera istintiva e selvatica utilizzando i limitati strumenti che avevo. Non sapevo cosa fosse una canzone e non avevo mai preso una chitarra in mano. L’esame della Siae, ero già al mio terzo album, lo feci fischiando. Letteralmente. Andai in sede, all’Eur, con l’album in testa alle classifiche e dissi: “Le canzoni le faccio io e scrivo sia i testi che la musica, ma di che cosa dobbiamo parlare? Non so neanche la differenza fra un tasto bianco e un tasto nero”».
Come faceva?
«Con i computer, con i campionatori, con gli strumenti che condividevo con chi ad esempio faceva il rap: cioè, intendiamoci, non è che fossi il peggiore della classe all’ultimo banco. In quella classe lì eravamo tutti ripetenti. Ma eravamo la novità, il mondo nuovo».
Lei arrivò a cavallo tra i due mondi.
«E oggi mi ritrovo a osservare senza giudizio le nuove generazioni come si guarda un documentario sulle zebre. Le guardi. Non le giudichi. Trent’anni fa la zebra ero io».
All’epoca essere jovanottiani somigliava a un’identità.
«Io cercavo la mia, confusamente, ma quando mettevo una maglietta con una marca, il mio babbo iniziava a rompere i coglioni. «Che fai? Ma ti pagano per indossare l’Adidas?». Allora rispondevo: “Ma scusa, tu non lavori in Vaticano? È tutto un brand, la chiesa: il brand più forte da duemila anni a questa parte”. Discutevamo e c’era dialettica, ma alla fine ognuno restava sulle proprie posizioni».
Di cos’erano fatti i suoi vent’anni e le canzoni che cantava allora?
«Nei miei pezzi dell’epoca, lo riconosco, non c’erano scrittura, consapevolezza, immagini o suggestioni visive. C’era una grande energia però, un’energia assoluta, nel presentarsi al mondo. Per innamorarsi delle canzoni e dei testi c’è voluto tempo. Ci ho lavorato e ho cercato di capire come facessero tutti quelli che da De Gregori a Dalla avevo sempre amato. Alcuni li ho incontrati, ad altri ho chiesto consiglio. Ho ascoltato. Ho rubato. E l’ho fatto con la mia indole che non è quella, magica, di saper raccontare un film in tre minuti con una canzone, ma quella di creatore di slogan, di claim, di parole che restano impresse al di fuori della narrazione».
Si è chiesto il perché?
«Certo e anche se come dice il maestro non ci sarebbe niente da capire ho intuito che è qualcosa che ha a che fare profondamente con l’infanzia, con i primi cinque anni di vita, con i giochi che si fanno prima di parlare, prima del linguaggio, prima di tutto. Il tuo sguardo sulla vita è figlio di quelle esperienze e il mio mondo non è un luogo di storie, ma di illuminazioni improvvise, di apparizioni, di movimenti, di scuotimenti improvvisi».
Quando ha capito con chiarezza cosa voleva fare nella vita?
«L’11 luglio del 1982, quando l’Italia di Bearzot vinse il Mondiale in Spagna. Avevo iniziato già a fare l’assistente dj e quella sera il dj ufficiale della discoteca, impegnato a festeggiare, era introvabile. C’era caos, faceva caldo. All’improvviso mi dissero “oh, ma i dischi vuoi metterli tu?” e non me lo feci ripetere due volte. Piazzammo due casse fuori dal locale, poco più di un sottoscala, un “fondo”, come lo chiamiamo in Toscana, e feci un primo grande dj set fino all’alba. Una festa incredibile. Un momento epico di felicità condivisa».
Il 1982 è un anno chiave.
«È l’anno in cui lasciati definitivamente alle spalle gli anni ’70, la gente torna a uscire e i locali cominciano a riempirsi. Lavoravo nelle discoteche, nelle radio, ovunque ci fosse un ingaggio. Mi buttavo, proprio. Mi rendevo disponibile. Poi a settembre, a Roma, mi presero in un’emittente privata. È partito tutto da lì».
Era il suo sogno?
«La radio, dove mi aveva portato per la prima volta mio fratello Umberto, era un posto da sogno. C’erano il microfono per parlare, i dischi da mettere, le sequenze da scegliere per registrare i nastri. Pensavo: “tutto quello che ascolto a casa si fa qui”. Chiesi se potevo collaborare, mi risposero di sì e mi insegnarono l’abc. Imparai tanto, ero felice. Mi sembrava di essere arrivato alle porte del paradiso e temevo che qualcuno mi cacciasse».
Come fu l’impatto con il successo?
«Lo percepivo attraverso gli occhi degli altri perché ero molto concentrato su quello che stavo facendo: Non mi occupavo del mio successo, ma delle canzoni, dei vestiti, di come salire sul palco, della performance. A casa mia, a Roma, ero uscito nell’anonimato ed ero tornato che avevo i ragazzini ad aspettarmi sotto casa: mia madre faceva entrare chiunque, mostrava le stanze, i dischi, il tinello. Una volta arrivò un giornalista di Novella 2000 e mamma gli regalò tutte le foto: “Mamma, cazzo” le dissi: “ma perché dargliele tutte? E adesso come le recuperiamo?”. Lei, dispiaciuta, non sapeva che dire: “Ma era così gentile” rispose e lì mi preoccupai. Sentivo che i miei erano un po’ destabilizzati dalle conseguenze della mia notorietà e anche al di là della loro stessa volontà, avevo finito per trasformarmi in un personaggio anche in casa. Venivo esposto: ai conoscenti, agli amici degli amici, a chi passava per caso. L’idea non mi faceva impazzire. Durò poco, ma quella confusione aveva una ragione. Ero la prima persona famosa di tutta la mia famiglia. Nell’albero genealogico dei Cherubini, gente nota non c’era mai stata. Perdere le proporzioni era comprensibile».
Il suo ultimo disco si intitola “Il corpo umano”.
«Sotto la pelle, sotto la superficie, succedono tante cose».
E si fa spazio anche il dolore. Nel 2007 lei perse suo fratello Umberto, la persona con cui in giovinezza divideva la stanza da letto, precipitato con un aereo ultraleggero, a Latina. «Sul posto arrivai per primo e sono l’unica persona della mia famiglia che l’ha visto. Mi telefonò il mio babbo, gli avevano detto soltanto che c’era stato un incidente. Capii che non se la sentiva di mettersi in viaggio e gli dissi “vado io”. Ero a Cortona: mi misi alla guida infrangendo ogni codice della strada in una traversata solitaria, tragica e disperata. L’aereo era caduto in un campo arato. Mi ci portò un carabiniere e mi chiese “vuoi vedere?”. Fu una cosa molto forte e per la prima volta nella vita mi accasciai in ginocchio. Io e Umberto eravamo visceralmente legati e la nostra famiglia era una vera famiglia. La sua mancanza per noi rappresentò il crollo della colonna portante di tutta la struttura».
Lei ha detto che sua madre in qualche modo ne morì.
«La mia mamma ne è morta. Il mio babbo reagì diversamente: diventò più affettuoso, comunicativo e generoso. Non che non lo fosse, ma quelle qualità si accentuarono in maniera commovente. Mamma invece si chiuse. Quando le portavo Teresa, che era piccolina, faticava a relazionarsi perché aveva paura di emozionarsi e proiettarsi nel futuro. L’abbiamo capita e siamo stati con lei, tutti insieme, fino alla fine. Era una persona molto tenera. La fede, la parrocchia, le sue amiche, le radici».
Lei ha mantenuto le sue e vive ancora a Cortona, in provincia.
«Non ho la percezione di vivere in provincia, sto in casa, con Francesca, qualche animale, lo studio di registrazione, il collega musicista che viene a trovarci, le fughe in bicicletta o nei boschi. Non sono un orso recluso in una riserva e viaggio molto per cui il posto in cui abito è perfetto per andare via e tornare. Non riesco a immaginare un angolo migliore di quello».
È diverso da un palco.
«Il luogo in cui più solo e contemporaneamente più esposto al mondo: un esperimento interessante».
Lo calca da decenni: che segno pensa di aver lasciato?
«Non ci penso mai, non ne ho proprio idea e sono totalmente disinteressato al mio passato».
Pensa che il meglio debba ancora arrivare?
«Senza dubbio. Non penso di aver fatto delle grandi cose, ma delle cose buone sì. C’è ancora margine per farne altre. Giurano che è improbabile che invecchiando si migliori. Io dico che non è detto: siamo qui e siamo pieni di idee. La festa è qui».