Corriere della Sera, 18 aprile 2025
Intervista a Franco Balmamion
Ultimo piemontese a conquistare il Giro d’Italia, ultimo italiano a vincerne due consecutivi, unico nell’albo d’oro a non essersi aggiudicato nemmeno una tappa, Franco Balmamion puntella i suoi 85 anni con una memoria prodigiosa.
Il suo primo ricordo?
«Un signore che si avvicina al mio lettino per accarezzarmi. Continuo a credere che quell’ombra fosse mio padre. Richiamato alle armi come vigile del fuoco perché troppo anziano per andare al fronte, papà morì a Torino nel 1943 sotto un bombardamento degli alleati. Avevo tre anni, una madre, una sorella più grande e una nonna che viveva con noi».
Una partenza difficile.
«Ma noi Balmamion non ci si perdeva d’animo. Eravamo magninot, calderai, da generazioni. Nel cortile di casa stagnavamo pentole e paioli per venderli nel negozio di famiglia: utensili fondamentali in una società contadina. A dieci anni giravo con mamma per i mercati di paese con la merce caricata sul carro: Nole, Ciriè, Lanzo, Caselle e un po’ tutto il Canavese. A quattordici cominciai a lavorare sul serio».
Dove?
«Finita la scuola di avviamento commerciale, che sostituiva le medie, mi presero come idraulico in acciaieria. Poi passai alla Magnoni & Tedeschi, un’industria tessile dove ero operaio addetto alla riparazione delle macchine. E infine alla Fiat, dove stringevo boccole».
E la bici?
«Arrivò grazie a mio zio, Ettore Balma Mion».
Scritto staccato?
«Così si usa dalle mie parti: i Balma Mion, i Balma Tivola, i Balma Molinar, i Balma Vener. Ma io a un certo punto ho cominciato a firmare unendo i due cognomi ed eccomi Balmamion».
Parlavamo di zio Ettore.
«Era stato professionista indipendente, quinto al Giro d’Italia del 1931. Andavo con lui alle corse dove mi lusingava vederlo riconosciuto e riverito. Mi regalò la sua Frejus grigia e rossa e con quella, a 17 anni, cominciai a gareggiare».
Risultati?
«Buoni. Non ero veloce ma arrivavo sempre con i primi. E siccome pedalavo una bici vecchia di trent’anni, con le ruote in legno fissate con i galletti di sbloccaggio ormai in disuso, per canzonarmi mi ribattezzarono Petit Breton, come il vincitore del Tour 1907».
Fece carriera rapidamente.
«Passai professionista a 21 anni nel 1961 con la Bianchi ottenendo dalla Fiat un anno di aspettativa perché se fosse andata male sarei tornato ad avvitare bulloni. Non c’era tempo per la gavetta: a maggio mi spedirono al Giro d’Italia, arrivai secondo nella prima tappa dietro Poblet e il giorno dopo ero già in fuga da solo sul Colle della Maddalena, da Torino a Sanremo».
Inesperienza?
«No. Scappai dal gruppo perché mia madre aspettava in cima alla Maddalena e volevo mi riconoscesse. Prima e ultima volta che venne a vedermi in corsa: di solito stava a casa a pregare, la radio e la tv spente. A 17 anni aveva fatto a pezzi il mio tesserino da corridore: perso il marito tragicamente, temeva di perdere anche il figlio in un burrone. In quel Giro dimostrai di sapermela cavare e nel 1962 passai alla Carpano con Zilioli, Defilippis, Conterno e Bailetti».
Si guadagnava bene?
«Non potevo lamentarmi».
Quanto?
«Non l’ho mai detto a nessuno. Soprattutto a Bailetti che aveva un palmarès migliore e meritava più soldi di me: Antonio legge i giornali quindi preferirei non riferirlo nemmeno adesso».
La Carpano comunque fece un ottimo investimento: lei nel 1962 vinse il 45° Giro d’Italia.
«Presi la maglia nella diciassettesima tappa, a Casale Monferrato, infilandomi nella fuga giusta. I Giri di quell’epoca non erano quelli di oggi: ogni mattina c’era una fuga e ogni fuga rivoluzionava la classifica. Pensi che nella seconda tappa persi dieci minuti che poi recuperai giorno dopo giorno».
Con la vittoria, la sua vita cambiò di colpo?
«Mica tanto. Tornai a Nole su una macchina americana scoperta, feci una specie di parata nel corso del paese con tutti a bordo strada ad applaudire. Ma la sera era già tutto normale: non amavo i festeggiamenti, mi piaceva fare vita tranquilla».
Quell’anno nacque il Processo alla Tappa: nelle immagini d’archivio Rai dei dieci Giri d’Italia a cui ha partecipato lei, ospite di Sergio Zavoli, appare sempre sorridente e silenzioso.
«Il Processo era un teatrino dove ciascuno aveva un ruolo. Taccone recitava da caratterista sempre sopra le righe, Adorni da filosofo, Gimondi era l’uomo del buonsenso. A me francamente non andava a genio nessuna parte, non mi interessava la polemica. Volevo solo tornare in albergo a riposare».
Erano tutti suoi amici.
«Non Taccone, anche se sono stato tra i pochi a non litigare con lui e non era facile. Vittorio e Felice sì, erano davvero amici. Trascorrevamo assieme il dicembre al Mottarone dove si svernava per ossigenarsi facendo lunghe passeggiate sulla neve: lì Vittorio si innamorò di Vitaliana, maestra di sci e figlia del proprietario della pensione. E poi gennaio e febbraio a Diano Marina, ad allenarci, nell’albergo dove Felice conobbe sua moglie Tiziana, anche lei figlia del titolare. Un mondo piccolo».
Nel 1963 la seconda vittoria al Giro.
«Più difficile della prima. Ero marcato a vista, l’effetto sorpresa non poteva più funzionare. Indossai la maglia rosa nella 12ª tappa, in Svizzera, la cedetti a Ronchini dopo la crono di Treviso e la sfilai ad Adorni a Moena a tre giorni dalla fine».
Mai vinta una tappa.
«Mai. In dodici anni di carriera ho vinto solo un Giro dell’Appennino, un campionato italiano e un Gran Premio di Zurigo. Però sono arrivato secondo dietro Gimondi al Giro del 1967 e terzo al Tour de France lo stesso anno. Razionale, sapevo che le corse erano partite a scacchi e che ogni mossa andava studiata. L’unica volta che ho sgarrato l’ho pagata cara».
Racconti.
«Giro del 1968, l’organizzatore Vincenzo Torriani ripropose la mitica Cuneo-Pinerolo dove vent’anni prima Coppi aveva vinto dopo 190 chilometri di fuga. Erano le mie strade, i giornalisti mi stuzzicavano: “Dai Balma, per una volta fai il Coppi”. Scattai poco dopo il via, sul Sestriere ebbi una crisi spaventosa».
Il giorno più brutto della sua carriera?
«No, quello fu il 13 luglio 1967. Tom Simpson era alla mia ruota all’inizio del Mont Ventoux ma poi lo persi di vista. Al traguardo alcuni compagni arrivati in ritardo mi dissero di averlo visto esanime a bordo strada. La sera ci dissero che era morto. Era un ragazzo buono, generoso, simpaticissimo».
Lei finì la sua carriera in piena era Merckx.
«Eddy era di una forza indicibile ma io non potevo amarlo perché si nutriva del sangue di avversari e compagni. Era disumano».
Chi ammirava, invece?
«Jacques Anquetil. Un signore vero. Noi ciclisti eravamo tutti un po’ rozzi e maleducati, lui di un altro pianeta».
L’ultimo piemontese a vincere il Giro prima di lei fu Fausto Coppi.
«Io ero per Bartali. Ragazzino, militavo nell’Azione Cattolica e frequentavo la parrocchia. Bartali era uomo pio, amatissimo dai credenti e dai preti. A noi fecero capire che tifare Coppi, per via della Dama Bianca e del suo adulterio, non ci avrebbe portato sulla retta via. Solo poi ho capito la sua grandezza».
Juve o Toro?
«Toro, tutta la vita. Perché ho sempre preferito i gregari ai fuoriclasse, chi vince poco a chi vince tutto. E poi perché quando sei un bimbo di nove anni e ti piomba addosso Superga puoi solo tifare Toro».
A fine carriera?
«Ho girato per trent’anni il Piemonte a piazzare flipper, biliardini e soprattutto jukebox nei bar: i Seeburg, gli Arbiter, i meravigliosi Wurlitzer. Li affittavo, li aggiustavo, li rifornivo di 45 giri, toglievo e contavo le monetine: metà incasso al gestore, metà a me. Ho avuto una bella vita, sa?».