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 2025  aprile 18 Venerdì calendario

Intervista a Giancarlo Giorgetti

Si è tenuto ieri a Roma, nel Tempio di Vibia Sabina e Adriano nella sede della Camera di Commercio, il secondo evento di presentazione del nuovo settimanale economico Moneta, disponibile in edicola ogni sabato in abbinata con Libero, il Giornale e il Tempo. L’appuntamento si è aperto con la presentazione del magazine da parte del direttore Osvaldo De Paolini, quindi il direttore del Tempo Tommaso Cerno ha intervistato l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi; successivamente il direttore responsabile di Libero Mario Sechi ha intervistato il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. «In un momento di crisi dell’editoria ma di necessità delle informazioni è importante far sentire la presenza di un giornale di carta» dice il direttore di Moneta Osvaldo De Paolini. «I giornali cartacei continuano a essere un punto di riferimento fondamentale per le informazioni».
Al ministro Giancarlo Giorgetti bisognerebbe dare il titolo di miglior ministro dell’Economia dell’Unione Europea. Si fanno sempre titoli quando le cose vanno male, non se ne fa nessuno quando vanno bene. Dopo 5 anni con Giorgetti l’Italia ha preso l’upgrade con Standard and Poor’s.
«L’upgrade è stato importante perché è arrivato in una situazione di grandissima complessità e confusione economica. La cosa logica sarebbe stata rimanere conservativi anche se i risultati erano positivi; quindi, questo rappresenta un grande investimento di fiducia nei nostri confronti».
Cosa hai provato quando hai scoperto la notizia?
«Almeno loro hanno capito (sorride, ndr). Qui tutti danno per scontate tante cose. Io penso che chi fa il ministro dell’Economia non cerchi il facile consenso, anzi deve dire più no che sì. Il rapporto fiduciario fra me e Giorgia Meloni è solido e fin quando funzionerà questi sono i risultati».
Oggi (ieri, ndr) Meloni e Trump si sono incontrati. Pensi che tra loro ci sia feeling personale ma si trovano in un contesto difficile?
«Tra loro c’è simpatia personale e penso ci sia anche nei confronti del nostro Paese. Dopodiché l’agenda è parecchio complicata. Si è parlato moltissimo dei dazi, ma ci sono anche tante altre questioni di carattere bilaterale che devono essere composte in un puzzle. Le vicende delle guerre commerciali e del ruolo dell’Europa sono importanti, ma ce ne sono diversi altri».
Altrettanto importanti.
«Sì assolutamente. C’è l’aspetto, chiamiamolo così, di “guerra valutaria”: il valore relativo e comparato tra dollaro ed euro produce un dazio implicito».
E gli americani stanno cercando di tenere basso il valore del dollaro.
«Fa parte di una strategia complessiva che non è frutto di pazzia, ma di una precisa strategia che si esplicita in modo bizzarro ma che è chiarissima».
Qual è la logica di questa azione?
«Trump prende atto di una situazione che nel lungo e anche nel medio periodo era insostenibile, ovvero il disavanzo commerciale degli Stati Uniti compensato dalla capacità di attrarre capitali grazie alla forza storica del dollaro. I cinesi compravano il debito americano e davano soldi per comprare prodotti cinesi. Questo meccanismo, che per un po’ poteva funzionare, ha cominciato a mostrare la sua pericolosità con l’avvento della pandemia: una grande potenza non può ignorare il fatto che gli vengono a mancare componenti per fare cose fondamentali. A quel punto, già Biden aveva iniziato con una sorta di protezionismo camuffato, con l’Inflation Reduction Act. Trump invece è stato molto più aggressivo, segnalando la necessità di riscrivere le regole del commercio globale».
Il World Trade Organization è morto, è vivo o non sta tanto bene?
«Il Wto è morto e combatte contro di noi. Quando facciamo le riunioni al G20 c’è sempre la sua sedia, però quando parla non gli dà più retta nessuno. È un foro a cui uno dovrebbe ricorre quando c’è una pratica commerciale scorretta a livello globale però, dato che non è più riconosciuto, ricorrere al Wto non ha più senso».
Hai parlato con Scott Bessent, il ministro del Tesoro americano?
«Dovrei vederlo martedì prossimo. In realtà, gli avevo parlato prima delle elezioni dato che avevo puntato su di lui. Prima degli incontri del Fondo Monetario Internazionale dello scorso autunno, appena prima delle elezioni Usa, ci siamo chiamati e visti di nascosto. Pensavo che se avesse vinto Trump sarebbe diventato segretario del Tesoro, e così è andata».
Che tipo ti sembra?
«Sicuramente è quadrato, se no non diventi segretario del Tesoro. Secondo me, pur comprendendo ed essendo espressione della politica di Trump, ha la sensibilità di capire cosa succede di qua dall’Atlantico. Nell’ambito dell’amministrazione Trump, capire come funziona l’economia europea è fondamentale per noi. Nel suo primo intervento al G7, in attesa di capire il posizionamento in relazione ai dazi annunciati il giorno precedente da Trump, nel 90% del suo intervento ha attaccato la Cina. Per quanto riguarda i dazi che incidentalmente sono stati messi sull’Europa ha detto: “Vediamo, ci metteremo d’accordo”».
Questo conferma che il vero bersaglio di Trump è la Cina.
«Sicuramente il nemico strategico è la Cina. Dopodiché, l’Europa non è l’alleato senza se e senza ma: è un alleato con cui si discute anche di affari quando qualcosa non quadra come sulla difesa, sulle spese per la difesa e sul disavanzo della bilancia commerciale. Quello che è diventato chiaro è che l’amministrazione Trump avrebbe preferito negoziati bilaterali con i Paesi dell’Ue. Alla fine, hanno capito che la competenza della politica commerciale è dell’Unione. Cosa diversa invece è la disciplina fiscale…»
Tu ti fidi di Germania e Francia in questa trattativa?
«C’è un problema di tipo oggettivo. La Francia ha un governo in carica ma che ha difficoltà, le stesse che aveva la Germania fino a due mesi fa. La Germania adesso avrà un governo nella pienezza dei poteri e sappiamo che i tedeschi quando ingranano poi diventano una forza della natura».
Hanno un grande spazio fiscale ma non hanno concordato con nessuno però.
«O si riconosce un sistema di regole condivise, frutto di un compromesso normalmente al ribasso – perché purtroppo le mediazioni delle direttive comunitarie sono compromessi a ribasso – oppure se qualcuno si muove autonomamente non può essere lo stesso che dettava le regole a ribasso e poi le viola sei mesi dopo. Peraltro, la Germania non ha presentato il piano a 4 o 7 anni previsto dalla governance europea, però nessuno gli ha mostrato il cartellino giallo. Capisco la situazione eccezionale, ma noi abbiamo rispettato tutte le scadenze; forse anche per questo ci hanno dato l’upgrade».
Ma quindi il Patto di Stabilità è morto?
«Il Patto di Stabilità lotta sempre contro di noi. Però un Paese come il nostro non può andare a fare la guerra contro tutti gli altri, specie con un debito così; se no, altro che upgrade. Il tema è che, essendo come degli scolari che storicamente non sono stati i primi della classe, ora dobbiamo dimostrare di più».
Il paradosso è che ora siamo i più disciplinati: avanzo primario, upgrade…
«Attenzione, l’economia non è fatta solo di contabilità pubblica: questa è un presupposto per fare poi altre cose. Viviamo in un ambito europeo estremamente confuso, ti faccio un esempio».
Prego.
«Noi per due anni abbiamo chiesto l’esclusione dal Patto di Stabilità degli investimenti sulla difesa; oggi l’Ue ci dice che dobbiamo considerare tutta la difesa fuori dal Patto. Questa inversione di tendenza vale per il Patto di Stabilità, ma anche su tante altre cose. Adesso lo slogan è “stop the clock”: tutte le direttive, più o meno farneticanti in termini di burocrazia, approvate all’unanimità negli ultimi dieci anni, improvvisamente si è scoperto che vanno contro la competitività delle imprese europee. Però non si ha il coraggio di dirlo e cancellarle, quindi le vogliono solo sospendere».
Qualche retroscena politico. Quando c’è l’Ecofin e si trattano questi temi, quali sono le tue sensazioni?
«Esistono due dimensioni: in quella europea c’è una specie di bolla in cui politici e burocrati che vivono lì non si rendono esattamente conto di cosa succede fuori. Succede spesso che arrivano i ministri, che già hanno dovuto lottare nei rispettivi parlamenti nazionali, e sono costretti a leggere certi faldoni scritti dai burocrati che non hai idea».
Un esempio?
«Allora, eravamo all’ultimo Ecofin di Varsavia per parlare della spesa comune europea: la Commissione ha redatto un’impalcatura di strumenti, più o meno chiari, per la difesa. La Commissione dice: “Dovete chiedere autonomamente, ma in modo coordinato, l’eccezione al Patto di Stabilità e quindi spendere di più per la difesa”. Non si sa però concretamente per che cosa dobbiamo spendere. A un certo punto, il ministro sloveno si è lasciato andare: “Penso di parlare per tutti sostenendo che se si dice al ministro della Difesa e ai generali che possono comprare armi, arrivano con una lista della spesa lunga così”. A quel punto tutti si sono accodati».
Da te arriva Crosetto con una lista infinita…
«Secondo me non aveva il coraggio di mandarmela. Io non ho ancora avuto il coraggio di guardarla».
In questa chiacchierata abbiamo delineato alcuni scenari: la guerra dei dazi ci dà la possibilità di rifondare il Wto, di riscrivere le regole del commercio mondiale. Poi, la crisi del sistema economico e la guerra ci danno l’occasione di riscrivere il Patto di Stabilità e anche il patto fondativo su cui si regge tutta l’Unione Europea. Infine, la crisi sull’asse euro-atlantico ci dà la possibilità di costruire un rapporto diverso con gli Usa. Queste cose ci consentono di vedere il bicchiere mezzo pieno, o no?
«Una cosa sola mi ha sorpreso in tutto questo quadro: l’azione di Trump in cui, con il suo tabellone dei dazi, ha applicato una formula matematica a tutti i Paesi del globo senza distinguere se erano Paesi democratici e liberali o dittature. Si è così ritrovato Paesi in cui ci sono dei regimi con un trattamento privilegiato rispetto alle democrazie. Quell’approccio non faceva alcun riferimento ad una sorta di alleanza basata su valori e principi. Adesso questa cosa sta rientrando: l’obiettivo finale, all’interno del G7 dove si condividono certi valori, deve essere la solidarietà reciproca».
Occidente contro Cina? Occidente contro Brics? Qual è lo schema?
«È da capire perché all’interno del Fondo Monetario Internazionale si sono chiesti se Trump avrebbe fatto fuori anche loro come organismo multilaterale. Gli Usa, con il dollaro e il Wto, hanno dominato il mondo; nel frattempo però i Brics hanno messo in piedi la loro banca per candidarsi ad essere alternativi al Fondo. La Cina, infine, guida i Paesi emergenti e reclama maggior peso: questo sarà un altro tema di scontro. E, in tutto ciò, resta da capire quale posizione assumeranno gli Stati Uniti nei confronti del Wto».
Secondo te, quale sarà l’esito?
«Il tema vero è capire se c’è la volontà da parte degli Usa di mantenere questa forma di egemonia, specie sull’Africa che oggi si sta consegnando alla Cina».
Come sta l’Italia?
«L’Italia sta bene perché ha un’innata capacità di superare le difficolta. Siamo un Paese resiliente e per questo supereremo meglio degli altri le difficoltà dei dazi. Nonostante una classe politica abbastanza scarsa…».
Territorio, finanza, credito: è in corso un grande risiko in cui lo Stato è protagonista. Come andrà a finire?
«Lo Stato non vuole avere un disegno: si è trovata una banca scassata, l’ha risanata e ora è la principessa a cui tutti vogliono infilare la scarpetta. Sarà il mercato a decidere. Noi come governo dobbiamo prendere decisioni oggettive che vadano nella direzione dell’interesse nazionale».