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 2025  aprile 18 Venerdì calendario

Che asino Apuleio, tutto noia e disgusto

l 125 d. C. è una data probabile della nascita di Apuleio, autore dell’unico romanzo latino pervenutoci intergralmente. Ma partiamo da un parallelo, singolare e forse utile. Luciano è di cinque anni più giovane o forse sono perfetti coetanei. Apuleio africano di Madaura nell’odierna Algeria, Luciano siriano di Samosata, solo la larghezza dell’Eufrate a dividerla dai Parti, estremo limite ed eterni nemici dell’impero. Tanto che l’imperatore Adriano, che si trasferì ad Atene giusto nel 125, decise saggiamente di lasciarli al loro destino. Apuleio aveva terminato gli studi ad Atene e Luciano vi si stabilì per vent’anni. Due tra i non molti o proprio pochi narratori che l’antichità ci ha lasciato furono entrambi conferenzieri di professione, girarono il Mediterraneo per le loro performances.
Furono a Roma tutti e due non per molto, forse nello stesso giro d’anni. Luciano non credeva in nulla, Apuleio a tutto. Del romano non abbiamo notizie oltre il 170, del greco oltre il 180. Il primo concluse la sua vita a Cartagine e il secondo in Egitto, dov’era finito per un incarico politico. Li separava la lingua ma questo è vero a metà. Di certo l’africano conosceva bene il greco e lasciò scritto che compose ugualmente in latino e greco. E scrissero entrambi la storia delle metamorfosi dell’asino Lucio. Con tante affinità e sovrapposizioni geografiche e cronologiche, e di studi e temi, si incontrarono? Nessuno lo dice e nessuno lo sa, ma è divertente pensarlo anche perché la carriera dei due non fu una cosa seria. Con una correzione su questo punto, riguardo ad Apuleio. Dov’è la serietà nelle sue Metamorfosi, salvo che nella famosa storia di Amore e Psiche, e nell’ultimo redentivo libro, l’undicesimo? Sarebbe dove Lucio ha paura, sostiene un interprete. E Lucio ha paura spesso.
A un tratto lo vediamo disperato, seduto sul letto, le gambe raccolte e le braccia che stringono le ginocchia, che piange. Ha appena ucciso tre uomini che stavano per assaltare la casa che lo ospitava. Senonché, in questa corona di storie in cui tutto diventa qualcos’altro, i tre uomini erano orci. Nella giornata dedicata al riso, gli abitanti decisero di tirare questo bello scherzo – scherzo magico all’ospite sbattuto qua e là dalla sua curiosità e vulnerabile in qualità di forestiero. La parola chiave: curiositas. Una divorante brama di curiosare che non si ferma davanti a nulla e che apre, lì sì piuttosto irresistibilmente, il romanzo. «At ego tibi sermone isto varias fábulas conseram» (Eccomi qui a intrecciarti, lettore, nel mio discorso una serie di storie). E già sfila la collana o la matrioska dei racconti. Lucio comincia dicendo che ha incontrato due persone, una delle quali inizia un suo racconto. E racconta di aver incontrato un amico, il quale inizia un racconto... Appena smontato da cavallo sente dunque questi due amici parlare tra loro. Uno dei due dice all’altro di star zitto con le sue balle. Lucio di intromette come fosse il terzo dei compagni e lo esorta a continuare: «Io ti crederò anche per costui e alla prima osteria che incontreremo ti pagherò il pranzo». La curiosità lo porta a spiare la trasformazione della sua ospite- strega, Panfila, a tal punto invaghita di un giovane da trasformarsi in gufo, spargendosi di un unguento, per volare da lui. E una curiosità ancora più folle spinge Lucio a far lo stesso. Con l’aiuto della serva Fotide si cosparge anche lui, e cosa accada qui è facile indovinare, con tanti flaconi tutti uguali... Diventa asino invece che volatile. E asino resterà fino all’ultimo libro, nel quale finalmente mangerà le rose che gli restituiranno aspetto umano. Avviene grazie a Iside. E la catena di vicende in cui impazza la magia nera è sigillata dall’azione redentiva della magia bianca. Gli studiosi fanno acrobazie con ammirevole e spiazzante obiettività per trovare un pregio – ma Ettore Paratore è impietoso – al romanzo d’avventure rosa-erotico- horror di Apuleio. E tutti riconoscono che sta nello stile esuberante, incline a tutte le seduzioni – come Lucio – dell’arcaismo e del neologismo, del poetismo e dell’omofonia, dell’antitesi... Ma l’infilata di vicende genera noia invece che piacere e l’efferatezza disgusto. Cerchi di distrarti. Più che leggere, studi o indaghi sviato dalla curiosità – come Lucio – per non chiudere il libro. Quanto c’è di Apuleio nel protagonista? Forse non poco anche se il romanzo è un rifacimento e la versione di Luciano, o dello Pseudo- Luciano, ha tanti episodi comuni. Ma qui si apre il discorso complesso sulle filiazioni, nelle quali entra una terza versione, che è forse la prima, di un Lucio di Patre di cui non si sa altro.
L’altra opera di Apuleio pervenutaci intera è l’Apologia o De magia, difesa di se stesso nel processo intentatogli a Sabratha per l’accusa di aver circuito, con arti magiche, una matura vedova per sposarla e averne l’eredità. Aveva fatto tappa a Oea (l’odierna Tripoli), in un viaggio verso Alessandria, lì incontra Ponziano, antico compagno di studi, che lo ospita. Tra Apuleio e la madre di Ponziano Pudentilla nasce l’amore prima e il matrimonio poco dopo. Ma certi parenti di lei l’accusano di maleficio. Non sappiamo come andò a finire ma si crede con il proscioglimento. La difesa è spavalda, lussureggiante, sprezzante e più che convincente (e quasi sicuramente riscritta e ampliata a cose fatte). L’accusa è molto traballante e il giudice un grand’uomo: il proconsole Claudio Massimo, filosofo stoico e tra i maestri di Marco Aurelio. Presso i persiani dire mago era come dire sacerdote, si difende Apuleio. Sicché di che mi accusate? Ma sa bene che il concetto di mago include quello di operatore di malefici. Per questa bivalenza, tra magia nera e bianca, nella sua difesa Apuleio loda la magia e ne rinnega il versante malefico. E per maggior sicurezza si professa neoplatonico. Poi: «O forse sono mago perché poeta?» («An ideo magus, quia poeta?»), dice suggestivamente in un punto.
Brillante e noioso, osceno e truce e ingenuo, qua e là godibile e sempre barocco, comico senza umorismo, rivoltante ogni venti pagine, frivolo e raffinato, sfrenato nell’immaginazione e nello stile, a chi obietta che causa degli eccessi è nel genere romanzesco, si può opporre l’argomento che nell’Apologia le cose non vanno molto diversamente. Per cui, ammette Giuseppe Augello iniziando la sua introduzione all’edizione UTET: «Il romanzo di Apuleio tra le opere giunteci dall’antichità è forse la più singolare e sconcertante che oggi si possa mettere nelle mani di un lettore moderno». Per indole, scelta e chiari limiti di artista la mente di Apuleio vola qua e là qualunque cosa scriva, con la lingua più serpeggiante che gli riesca di trovare. Il retore deve stupire e il successo può portargli denaro, fama e perfino incarichi istituzionali. Una conferenza dopo l’altra si fece in patria la fama cui ambiva. Ma il piacere di interessarsi ad Apuleio oggi bisogna inventarselo. Al sesto capitolo dell’Apologia, per proseguire devi raccogliere tutte le forze. E al terzo libro delle Metamorfosi... Un facile confronto con Luciano aiuta a comprendere dove si poteva arrivare, con un diverso talento, nello stesso campo.