Avvenire, 18 aprile 2025
Non solo armi e difesa comune Una pace agricola per l’Ucraina
Nelle ultime settimane stiamo assistendo a un continuo parlare di riarmo europeo e di sostegno militare all’Ucraina. La spesa militare europea – già in crescita da molti anni – continuerà ad aumentare a ritmi sostenuti per aiutare Kiev e, più in generale, per far fronte alla minaccia russa. In ogni caso, sul campo la guerra non si ferma e un qualsivoglia cessate il fuoco sembra purtroppo lontano a dispetto dei negoziati in corso tra Usa e Russia. Una volta apparso sulla scena Donald Trump, l’Ue è stata chiamata a giocare un ruolo decisivo non solo nella ricostruzione dell’Ucraina ma anche nella produzione e mantenimento di uno spazio di difesa e sicurezza. P ur nella gravità della situazione attuale, è lecito chiedersi se una strategia di pace e sicurezza di lungo periodo sia realmente efficace se fondata in via esclusiva su un’espansione crescente della spesa militare. In particolare questo interrogativo appare fondato se a un’idea di “sicurezza” associamo un più completa idea di “Pace” da costruire negli anni. Come è noto, all’indomani della Seconda Guerra mondiale, il governo americano e quelli dei fragili e lacerati paesi europei, compresero che non era possibile immaginare una strategia di sicurezza in Europa senza un adeguato piano economico che garantisse una crescita sostenuta e costante nel lungo periodo.
L o sviluppo economico era in pratica interpretato non come un obiettivo in sé ma piuttosto come il canale indispensabile al mantenimento della stabilità sociale nei paesi europei rafforzando in questo modo pace e sicurezza. Da qui il Piano Marshall ma soprattutto il sostegno e il favore americano per una progressiva integrazione economica europea. Questa, peraltro, si inseriva nella più ampia riscrittura dell’ordine economico mondiale in senso liberale definita a Bretton Woods nel 1944, vale a dire prima ancora che la guerra finisse. Pilastro, sovente dimenticato, della rinascita economica del vecchio continente fu la politica agricola comune che, pur con tutti i difetti che abbiamo riconosciuto negli anni, ha contribuito in maniera sostanziale al rafforzamento economico dei paesi membri. F acendo tesoro delle lezioni della storia, la nostra classe dirigente dovrebbe immaginare già da adesso, vale a dire prima che la guerra sia finita, la costituzione di un nuovo spazio economico europeo in cui l’Ucraina possa godere di un supporto non basato meramente su trasferimenti di armi e fondi per la ricostruzione, ma su una politica di integrazione economica e commerciale che contribuisca alla rinascita e alla definitiva transizione dell’Ucraina. Il principio portante di questo spazio economico europeo non può che essere la realizzazione di una piena area di libero scambio tra i paesi, così come aveva suggerito John Maynard Keynes già nel 1919 rimanendo purtroppo inascoltato.
I n questa prospettiva, l’Ue è decisamente in ritardo e il nodo principale da sciogliere rimane quello dell’agricoltura. Questo è infatti uno dei temi “caldi” a Bruxelles. Non molto noto è il fatto che alcune tra le più preoccupanti divisioni tra i governi europei si sono presentate in seguito all’iniziativa della Commissione denominata “Corsie della solidarietà” per i beni agricoli ucraini. Questa prevedeva che venissero rimosse le limitazioni quantitative i dazi ai beni agricoli ucraini, nei paesi Ue poiché una parte sostanziale della produzione agricola ucraina non poteva più essere esportata attraverso il Mar Nero.
I l massiccio flusso di beni agricoli ha però determinato un aumento inaspettato dell’offerta di tali beni nei paesi confinanti con l’Ucraina (Polonia, Slovacchia, Ungheria, Romania e Bulgaria), e di conseguenza una riduzione drastica dei prezzi. Inevitabilmente gli agricoltori di queste nazioni hanno protestato, esercitando pressioni sui loro governi affinché implementassero restrizioni commerciali sul transito e la vendita di beni agricoli ucraini all’interno dei loro confini. E difatti, alcuni governi all’inizio avevano annunciato unilateralmente che non avrebbero applicato tali misure, fino a che il Consiglio europeo e il Parlamento non riuscirono a definire un accordo per garantire l’estensione delle agevolazioni sulle importazioni agricole dall’Ucraina fino alla metà del 2025.
L’ accordo faticosamente raggiunto prevedeva comunque una serie di clausole di salvaguardia per i paesi membri laddove le importazioni da Kiev avessero causato eccessive distorsioni al mercato agricolo interno unitamente a quote su beni specifici. Lo stallo e l’imbarazzo sul tema sono però evidenti. Da un lato i leader europei tacciono sulla questione mentre, a dispetto dell’accordo comunque in vigore, le proteste dei produttori agricoli di alcuni paesi continuano. Negli interventi tenuti recentemente dal commissario all’agricoltura, il lussemburghese Christophe Hansen, di fronte alla Commissione agricoltura del Parlamento europeo sulla visione dell’agricoltura nel futuro, il tema dell’integrazione dell’Ucraina nel mercato agricolo europeo non è stato mai menzionato. E ppure la questione agricola, se irrisolta, rischia di esacerbare le potenziali divisioni in seno all’Ue. Essa infatti peraltro offre uno spazio di manovra politico ai governi più vicini a Putin, come ad esempio quello ungherese. Alla fine del mese di febbraio, guidati da Budapest, i ministri dell’agricoltura di Ungheria, Bulgaria, Romania e Slovacchia hanno inviato una lettera alla Commissione chiedendo il ripristino delle limitazioni alle esportazioni ucraine una volta che l’accordo arrivi a scadenza il prossimo 5 Giugno 2025. Per molti aspetti, quindi il nodo dell’agricoltura è forse addirittura più importante di quello della difesa. Esso infatti, rappresenta, uno dei tasselli necessari per la costruzione di uno spazio economico europeo in cui prima deve entrare a piena titolo l’Ucraina ma poi successivamente anche la stessa Russia, per evitare che nel tempo non esistano robusti anticorpi alle opzioni di un confronto militare tra Mosca e tutti noi.
È difficile immaginare un percorso verso una pace stabile se non si affrontano con decisione alcuni nodi inerenti all’integrazione economica che poco più di settanta anni fa hanno reso la guerra non solo “impensabile” ma anche “materialmente impossibile”, così come era stato previsto da Robert Schuman nel 1950.