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 2025  aprile 18 Venerdì calendario

Nel “far west” lungo il Giordano i picnic armati dei giovani coloni

Non sono i soldati a bloccare l’accesso alla comunità di Farisiya. Ma è, comunque, impossibile passare. I ragazzi hanno fatto un bivacco. E lo presidiano con le pistole in pugno. Non resta che cercare un passaggio alternativo. Dopo qualche decina di metri si incappa, però, in un altro gruppo che, in mezzo alle rocce, ha piazzato una bandiera e fa un picnic. La comitiva brandisce sassi e coltelli contro chi prova ad avvicinarsi. In occasione della festa di Pesah – che va avanti fino a oggi –, c’è stato un tamtam social per invitare i giovani degli insediamenti a organizzare “scampagnate” nella Valle del Giordano. E tanti hanno risposto al richiamo. Una sfida più che una gita a giudicare dagli sguardi torvi. Sconsigliato anche proseguire verso Tammun e Tubas, le cittadine principali della zona: il check-point dell’esercito va a singhiozzo da giorni.
«C’è molta tensione. Ormai è un Far West», sentenzia Omar Fauqaha, responsabile del vicino municipio di Ein al-Bayda, 1.800 abitanti quasi sulle rive del grande fiume che scorre appena oltre le colline. La Giordania è a cinque chilometri, dietro una fragile recinzione. Un corridoio strategico verso l’esterno – per la vicinanza della frontiera – e verso l’interno poiché congiunge il nord e il sud della Cisgiordania. Pur nel deserto della Giudea, inoltre, la terra è particolarmente fertile come dimostrano le esplosioni di verde nel bianco calcareo dell’altipiano. Sono le piantagioni di palme da dattero della pregiata qualità “medjul”: se ne contano ovunque lungo l’autostrada 90 e Allon road, le due vie parallele che, da Gerusalemme, conducono alla vallata. «Merito dell’acqua: il sottosuolo ne è ricco – aggiunge Omar –. Per questo tutti vogliono accaparrarsi questa regione».
È così dal 1967 quando, dopo la Guerra dei Sei Giorni, Israele l’ha occupata. Il 60 per cento è, tuttora, sotto il suo controllo militare diretto, la cosiddetta Area C, creata dagli Accordi di Oslo, dove risiedono – illegalmente in base al diritto internazionale – oltre 700mila coloni dello Stato ebraico. La Valle del Giordano, che si estende per un terzo dei Territori, ne costituisce più della metà. «Mai, in quasi mezzo secolo, la pressione era stata intensa come dopo il 7 ottobre», spiega Reut Shaer dell’Associazione israeliana per i diritti umani (Acri), da tempo impegnata nella regione. La sua affermazione è confermata da un recente studio di altre storiche organizzazioni di Tel Aviv – Yesh Din e Physicians for human rights Israel –, secondo cui, nell’ultimo anno e mezzo, l’aggressività dei coloni ha “svuotato” almeno 10mila ettari di territorio tra Allon road e la Giordania dei 25mila in cui, tra riserve naturali, aree per le esercitazioni e demanio pubblico, ai 60mila palestinesi era consentito vivere.
«Quindici, su una quarantina di piccole comunità di pastori e agricoltori, sono scomparse. Tra 6-700 persone, per la metà minori, sono stati costretti a trasferirsi», dichiara l’attivista. Al contempo la presenza di insediamenti è triplicata. Alle 15 colonie vere e proprie si sono aggiunti una trentina di avamposti o hotspots: una manciata di famiglie gestisce enormi estensioni grazie all’impiego di forza lavoro giovane, in gran parte reclutata attraverso programmi sociali per ragazzi problematici, come dimostrato dall’indagine di Kerem Navot e Peace
Now, basata su bilanci del governo e testimonianze. «Ci stanno strangolando. Attacchi e minacce sono continue», sottolinea Mohammed, arrivato al Comune di Ein-al-Badya per segnalare il furto di 32 pannelli solari dalla sua fattoria da parte di un gruppo di uomini armati e mascherati. Al vicino è andata peggio: ne hanno presi 64. «L’Ufficio Onu per i diritti umani (Ocha) ha registrato 67 episodi di violenza da parte dei coloni tra ottobre e novembre, altri 68 sono avvenuti tra gennaio e febbraio – prosegue Reut Shaer –. Molti di più, tre, quattro o anche cinque al giorno, secondo quanto ho rilevato dal monitoraggio di due villaggi – sono le “azioni di disturbo”». «È in atto un piano di espulsione predeterminato, perfezionato anno dopo anno. Questa zona è una sorta di laboratorio – spiega Elie Avigdor dell’associazione Jordan Valley activists –. Dato che le colonie erano “poco efficaci” nel cacciare i residenti originari, hanno costruito gli avamposti, più aggressivi, spuntati come funghi sotto la pioggia. L’ultima evoluzione sono i “gazebo”: quattro assi, una tenda delle panche e un generatore piazzati a pochi passi dalle comunità, da cui i giovani coloni vanno e vengono di continuo. L’obiettivo è rendere impossibili le vite dei palestinesi con minacce dirette e indirette, incursioni notturne per non far dormire i residenti, blocchi alla mobilità, ostacoli nell’accesso alle risorse». La disparità si nota a colpo d’occhio. Farisiya, raggiunta dopo oltre un’ora di giri a vuoto, è un pugno di casupole su un terreno brullo, senz’acqua corrente né elettricità. Un mondo a parte rispetto alle villette dai prati ben irrigati della vicina colonia di Rotem. Luai e Hanna, una delle sette famiglie di Farisiya, però, non si lamentano delle condizioni precarie. «Vorremmo solo essere lasciati in pace», dice il pastore mentre le sue trecento pecore pascolano nei 9mila metri quadri che gli ha lasciato il padre e a quest’ultimo il nonno.
«L’ultimo attacco è stato martedì. Sono venuti con i fucili e ci hanno detto che dovevamo andarcene. Ogni volta denunciamo: alla polizia, all’esercito, ai media ma non cambia niente – sbotta sconsolata Hanna –. I coloni ci hanno dichiarato guerra». Attenzione, parlo di coloni non di israeliani. Israeliani sono anche questi ragazzi venuti ad aiutarci», scandisce Hanna mentre indica Sol, Joren e Jona, 19, 20 e 19 anni, della Jordan Valley activists, che hanno deciso di trascorrere le festività come scudi umani nella comunità. «La nostra presenza dovrebbe scoraggiare gli aggressori – conclude Sol –. Non sempre funziona, ma almeno facciamo la nostra parte. Siamo la dimostrazione che possiamo vivere insieme. Se si vuole».