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 2025  aprile 17 Giovedì calendario

Intervista a Fulvio Pierangelini

Fulvio Pierangelini, lei ha un pessimo carattere?
Silenzio lungo un minuto. Sospiro. «Ma no. È che mi fa comodo che la gente lo pensi. Ancora stamattina ho detto: se per raggiungere uno scopo succede che io passi per arrogante o presuntuoso, non cedo di una virgola. Mi va bene che voi crediate questo... In realtà la mia timidezza e la mia educazione vengono fraintese. Non ho un pessimo carattere. Reagisco. Se mi fai qualcosa diventi invisibile. Ti cancello. Non parlo però mai male di nessuno. Sono talmente presuntuoso che non posso essere invidioso. Ricordo una volta a pranzo da Roscioli (ristorante di Roma, ndr) con il povero Stefano Bonilli. Un cliente si avvicinò per chiedere chi fossi. Gli risposero: Pierangelini. E lui: non è possibile, sta ridendo da ore...».
Romano, classe 1953, dal 2009 Creative Food Director per gli hotel di lusso del gruppo Rocco Forte. E infatti noi lo incontriamo proprio presso il Verdura resort a Sciacca, in Sicilia, cinque stelle lusso che attrae turisti da tutto il mondo. Per i trent’anni precedenti, fino a ottobre 2008, è stato alla guida del leggendario ristorante «Gambero Rosso» a San Vincenzo. Per molti Pierangelini è quello della passatina di ceci, piatto entrato nella storia della gastronomia. Ma che oggi a lui sta quasi stretto... «Mio papà quando l’assaggiò disse alla mamma: “Con questo Fulvio conquisterà il mondo...”. Mi ha reso famoso, ma non era la mia creazione più intelligente. O forse sì».
È vero che per mangiare al «Gambero Rosso» si doveva superare il suo filtro-prenotazione? Cioè che lei al telefono indagava cercando di scoprire il motivo vero per cui qualcuno volesse venire? E che le bastava un nulla per farle nascere il sospetto che volessero copiare o, peggio, criticare?
«Sì, è vero. Anche se la voce non mi piaceva dicevo che non avevo posto. Quella era casa mia, capisce? Non puoi accogliere a casa tua chiunque».
Come era arrivato lì?
«Volevo solo cucinare davanti al mare. Firmai tante cambiali quando lo presi. E diedi via la mia liquidazione di maestro di vela e bagnino: 550 mila lire, 1500 euro di adesso. Sono entrato e non c’erano tavoli né sedie. Non so, poi, come sia diventato un posto così speciale. Forse perché riuscivo a raccontare cose che non sono ripetibili oggi. È stata una cavalcata meravigliosa. Facevo avanguardia pura: la mia cucina ancora adesso è talmente avanti... Non ho mai seguito le mode. Arrivavano a tavola cose che sembravano normali, ma non lo erano».
Tanto normali non erano: è stato in testa per anni a tutte le classifiche. Due stelle Michelin. Si dice però che sia stato penalizzato dal suo carattere.
«Ma sì, quando mi arrabbiavo facevo sceneggiate. Se uno mi chiamava per un’intervista e storpiava il cognome buttavo giù, per dire. Una volta misi un cartello contro i giornalisti: per favore non entrate. Diciamo che qualche antipatia me la sono creata. Però ho avuto da sempre il rispetto delle persone: è il pubblico che decide la tua grandezza. Oggi sono tutti omologati, appena sei fuori dalle regole dai fastidio. Ma la mia cucina è stata più forte di me. Ho chiuso da numero uno».
A proposito, perché ha chiuso?
«Perché non riuscivo più a rimanere lì. Poi sì, ho raccontato di una ballerina russa, ma era per fare il cretino...».
Riavvolgiamo il nastro: qual è il suo primo ricordo?
«Io che vado a scuola e non volevo che mia mamma andasse via. Così lei doveva stare sotto e io la guardavo dalla finestra. Poi quando a sei anni ho tirato un sasso per giocare e ho acchiappato un uccellino. Sono stato male, e ancora oggi ci sto male. Dopo 70 anni».
Era un bambino felice?
«Non mi sono mai posto problemi di felicità. Ero tranquillo. Eravamo una famiglia normale. Avevo il giusto, mai il superfluo. Rubavo le ciliegie e ci giocavo. Ho cominciato a lavorare a 16 anni per guadagnarmi qualcosa. Vendevo giocattoli a Natale. Poi ho fatto a lungo il bagnino. E nel frattempo studiavo. Mi sono laureato in Scienze Politiche a Roma. Avevo professori pazzeschi: Saitta, Sperduti, Romeo. Anche Moro insegnava lì. Portai lo statino per la laurea il giorno del suo rapimento. Ho preso la laurea per far contento mio padre, però già mi piaceva cucinare. La mia educazione sentimentale alla cucina era avvenuta nelle estati al mare, nell’albergo dove lavoravo, Riva degli Etruschi. Passavo ore a guardare i cuochi. E provavo a rifare le loro ricette a casa. O rifacevo quelle di Ugo Tognazzi, che ascoltavo alla radio».
La prima cosa che ha preparato, le viene in mente?
«Una faraona in cocotte, profumatissima, ma tutta spappolata. Avevo 15 anni».

Quando ha capito che poteva diventare chef?
«Una sera d’autunno. Mentre facevo da aiutante lì all’albergo, in cucina, arrivò un autobus con 50 persone. E lo chef mi fece preparare per tutti la pasta. Niente di che, eh. Dovevo riscaldarla e buttarci sopra la salsa già pronta. Ma per me fu la rivelazione».

Mai lanciato una pentola?
«La cucina è come una nave: in mare aperto fai quello che dice il capitano, se no affondi. Servono disciplina e rigore. Ma se lanci una pentola sei stupido. Mi è capitato, però, di dire cose molto forti, quello sì».
Che cosa rappresenta per lei il successo?
«Non ne ho idea. Io non mi sono mai divertito. Il successo è sofferenza. Dura cinque minuti e poi cominciano le ansie. Non l’ho mai cercato».
Cosa la fa arrabbiare?
«L’incompetenza e l’arroganza. Anche le scorciatoie. Sono intransigente. E intollerante. Non accetto compromessi, soprattutto in cucina dove pretendo il rispetto delle materie prime. Ma oggi faccio un altro lavoro, guido le cucine degli alberghi di Rocco Forte nel mondo. Il che mi porta a chiedermi sempre se un piatto che creo sarà replicabile con la stessa qualità e piacerà alle persone. Prima di uscire, una ricetta passa dalle forche caudine della mia mente. E sa una cosa? Mi sento più giovane di tutti questi ragazzotti-chef. Sono più libero, perché ho avuto un talento. E non sono in competizione. Diciamo che gioco un altro campionato».
Ha amici?
«Pochissimi. Mi è sempre venuto difficile dialogare con le persone. Ai tempi anche passare tra i tavoli... Parlare per forza... E tra i cuochi, perché devono essere tutti amici? Con quelli che conosco ho rapporti di stima, questo sì. Per esempio le posso dire che Massimo Bottura è stato molto in gamba a emergere. Sono contento per lui. E per Massimiliano Alajmo. Tutti bravi ragazzi. Hanno avuto, come altri, un grande talento a emergere».
Lei ha fatto tv, in passato. Ci ritornerebbe?
«Ho cominciato con Giovanni Minoli con “Che fai, mangi?”. Poi non mi hanno più chiamato perché mi incavolavo. Mi hanno invitato anche a Masterchef. Non ci sono andato perché non mi piacciono certi atteggiamenti lì dentro. Hanno detto che avevo chiesto troppi soldi. Non è vero, ma preferisco passare da avido piuttosto che partecipare. Oggi, però, mi piace tanto la radio, lì ho un successo clamoroso».
Modesto...
«Ma è vero. Sono divertente. Sono brillante. Oramai non ho più una faccia da far vedere. Soprattutto un corpo da far vedere».
Cos’ha il suo corpo?
«È grasso. Mangio male. Non mangio seduto. E mangio qualunque cosa. Ho fatto decine di diete. Sono dimagrito 350 kg nella mia vita. Tutti ripresi.
Ma ho capito che sei tu che decidi tutto. I dottori servono a poco. Anche se ho lavorato con una nutrizionista inglese molto brava, Amelia Freer, quella che aveva fatto dimagrire anche Boy George».

Cibo del cuore?
«La pizza, però so di essere banale».

Parliamo d’amore. Lei si è sposato a dicembre per la seconda volta.
«Con Marie Mincke, una ragazza belga che ha venti anni meno di me. È stata una festa bellissima, a Firenze, nella falegnameria del mio amico Francesco Barthel. Eravamo in venti. Abbiamo bevuto degli champagne da sogno. C’era un sole meraviglioso. Ho cucinato io nelle pause tra la cerimonia e l’arrivo degli ospiti. L’abito di Marie glielo ha fatto Maria Grazia Chiuri. La distanza d’età tra di noi non mi pesa: finalmente una mia coetanea. Perché io sono giovane dentro: ho 71 anni (il 25 agosto 72, ndr) ma un cervello di 17».
Adesso però ha imparato ad amare?
Lungo silenzio. «Spero di sì. Chiaramente io ho sempre avuto questa necessità di sentirmi amato. Molte cose che ho fatto, compreso cucinare, erano modi per cercare amore. Pensi che una volta la mia ex moglie mi mandò dallo psichiatra. Era sulle colline di Firenze. Io mi stendevo sul lettino, un filo di sole cadeva sul divanetto e mi addormentavo.
Una meraviglia. L’analista, che aveva un accento abruzzese, non se ne accorgeva. Poi mi svegliavo e lo cazziavo pure: ma si rende conto che io pago lei? Lei dovrebbe pagare me per ascoltare le mie storie meravigliose. Che ci andavo a fare? Non posso raccontare gli affari miei a un estraneo. Lui, la mamma, Edipo... Però mi dava delle pasticchette fantastiche. Stavo troppo bene».
Era depresso?
«Forse lo sono da sempre».
Rimpianti o paure?
«Non aver fatto un figlio con Marie. Paura del tempo che passa, mi dà fastidio. E malinconia, tanta. Sono un professionista della malinconia».