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 2025  aprile 17 Giovedì calendario

Laurie Anderson: «Amo sempre le sfide nuove e strane. In America ci vorrebbero più artisti come Allen Ginsberg»

«Ero un’artista snob, da giovane pensavo che la cultura pop fosse stupida. Quando ho iniziato ad attirare l’attenzione del mainstream, temevo che i miei amici non mi parlassero più: “Ti stai vendendo”. Poco dopo l’hanno chiamato “crossover” e tutti hanno voluto farlo. Ma vedere la mia O Superman virale su TikTok mi ha reso felice», racconta Laurie Anderson seduta su una poltrona dell’American Academy a Roma, dove sta preparando una piccola parte dei progetti che la impegneranno per tutto l’anno.
Nomade e inafferrabile, da più di mezzo secolo osserva il mondo da altre prospettive attraverso un uso poetico della tecnologia: sopra pattini in bilico su cubi di ghiaccio, con i concerti per automobili e poi per soli cani (anche in coppia con il marito Lou Reed). «Dico quasi sempre di sì quando mi offrono strane e nuove sfide. Se mi proponessero un live sott’acqua proverei a farlo, anche se può sembrare idiota».
Laurie è fra i nomi di punta nel cartellone del Romaeuropa Festival, che quest’anno festeggia quarant’anni e che dal 4 settembre al 16 novembre propone  oltre 100 spettacoli tra musica, danza, teatro, arti digitali e creazione per l’infanzia ospitando artisti come  William Forsythe con la Dresden Frankfurt Dance Company, il Balletto Nazionale di Spagna con Marcos Morau,  Akram Khan, Baricco con Bollani, Kruder & Dorfmeister, Ryoji Ikeda, Chassol, Christian Marclay, Lia Rodrigues.
Laurie a novembre sarà nella Capitale per una nuova versione di Let X=X. «Non so se si chiamerà ancora così – spiega —. Faremo pochissime date. Sarò sul palco di nuovo con i SexMob. Cambieremo le canzoni, mi piacerebbe arrangiarle con i fiati. Sto rivedendo il mio lavoro e mi chiedo quali brani potrebbero essere gioiosi. Si parlerà d’amore, ce ne sono tanti tipi».
Sarà una performance politica?
«Quello che stiamo vivendo negli Stati Uniti mi influenzerà più di quanto io pensi. La maggior parte dei musicisti direbbe che è difficile tenere il mondo fuori dalle loro canzoni. Ma ora la musica è più che altro intrattenimento. E lo stesso vale per i libri, la gente preferisce guardare serie tv e in streaming».
Meglio ieri o oggi?
«Nessuna delle due, è solo molto diverso dagli anni 70, quando la musica voleva cambiare il mondo. Tante fiction sono politiche, non credo che le canzoni lo siano».
In «Ark United States 5», suo ritratto degli Usa, Musk era il diavolo.
«Era humor nero, ma poi è arrivato davvero.
Ha preso il controllo di tutto, è a capo del Dipartimento per l’Efficienza governativa... molto kafkiano. Invece avremmo bisogno di artisti militanti, come Allen Ginsberg».
Non ce ne sono?
«No, è pericoloso. Non faccio esempi, non è bene pubblicizzare queste cose».
Lei ha paura?
«No. Vedrete».
Al Festival di Vienna, a luglio, terrà anche un talk intitolato State of Love.
«Mi hanno dato un tema, “L’ascesa del nazismo”. Lo farò in un posto usato per trasmissioni radiofoniche che mandavano in onda i discorsi di Hitler, diciamo che c’è una certa atmosfera».
Le parole sono importanti.
«Donald Trump ha fornito una lista di centinaia di termini da rimuovere dai documenti federali: femminile, nero, equità... Se non riesci a dire qualcosa, a definirla, quella sensazione si perderà. Sto provando a mettere insieme quante più parole vietate, anche se non hanno senso».
Dopo New York, Roma è la sua città preferita. Perché?
«Sono venuta qui per la prima volta a 16 anni, giravo in bici. La seconda è stata nel ’71, mi era stato chiesto di partecipare a una mostra di sculture. Quando arrivai al capannone fuori città che doveva ospitare i lavori trovai sbarrato. Vidi un foglio con un numero di telefono. Chiamai. “C’è stato un piccolo ritardo”. “Di quanto?”. “Due settimane”».
Com’è finita?
«Ero una studentessa, non avevo i soldi per fare avanti e indietro con l’America. Il mio insegnante che era venuto a Roma mi disse: “Andiamo in giro”. Faceva freddo, abbiamo camminato ovunque. E mi sono innamorata di questa città».
Si è sentita accolta?
«C’era un gran fermento artistico. Pensavo: “Perché sono più aperta e ho tante idee?”. Poi ho capito. Qui la gente beveva a pranzo e a cena. Facevo lo stesso ma non ero abituata all’alcol ed ero completamente sbronza. Mi sono divertita tantissimo».

Lou Reed le chiedeva: cosa faremo quando il pubblico non vorrà più vederci?
«Avrebbe voluto aprire un bar per suonare quello che voleva così nessuno avrebbe potuto mandarlo via. Penso che sia una buona idea, non mi dispiacerebbe».
Cos’altro vorrebbe fare?
«Ho progetti che non prevedono spettatori: suonare, scrivere, gli amici. Non mi serve molto, non ne ho mai avuto bisogno»