Corriere della Sera, 17 aprile 2025
Intervista a Massimiliano Fuksas
«Mio padre era nato in Lituania, da madre tedesca e padre lituano. Famiglia ebraica benestante e colta. Papà arrivò a Roma nel 1936, voleva specializzarsi in chirurgia. Tempismo perfetto: due anni dopo entrarono in vigore le leggi razziali».
Da ricchi diventaste di colpo senza niente.
«Mio padre si convertì al cattolicesimo per sposare mia madre, romana, ma di padre mediorientale. Al funerale di papà, nel 1950, c’erano ebrei, cattolici, luterani e un coro lituano».
Lei aveva appena sei anni.
«E alla cerimonia non c’ero».
Perché?
«Mia madre non volle. Mi affidò agli Spinelli, vicini di casa. Solo più tardi venni a sapere che lo zio del mio amico Oliviero si chiamava Altiero e aveva scritto il Manifesto di Ventotene».
Nasce qui la sua militanza di sinistra?
«In parte. Ho avuto un nonno materno che quando scoprì che i figli avrebbero dovuto indossare la divisa fascista per andare a scuola fece a pezzi gli indumenti. Grande costruttore, mai nessuna tessera di partito e a Mussolini un giorno glielo rivelò senza tanti complimenti».
A scuola lei andava bene?
«Ho imparato ad amare la poesia e la musica dal mio maestro delle elementari. Si chiamava Giorgio Caproni».
Uno dei più grandi poeti del secolo scorso.
«E a casa sua ho conosciuto un suo caro amico, Giuseppe Ungaretti».
E poi il liceo.
«Sa chi era il ragazzo più brillante del liceo “Virgilio” all’epoca?»
Francesco De Gregori?
«No, Bernardo Bertolucci, di poco più grande di me. Si andava a giocare a calcio e quando diventammo più adulti a noi si unì un uomo sensibile, coltissimo e pieno di ombre. Un giorno si presentò: “Piacere, sono Pier Paolo”».
Com’era Pasolini in campo?
«Veloce, scattante, però rispettoso delle regole, si incazzerà dopo quando comincerà a scrivere i meravigliosi pezzi sul Corriere della Sera».
Secondo lei che cosa c’è davvero dietro la sua morte?
«Secondo me Pier Paolo aveva deciso di morire. Punto».
Si può decidere di morire?
«Mia madre lo ha fatto. È arrivata a 101 anni e poi ha semplicemente detto basta. Senza gesti eclatanti, ha solo deciso che era finita».
E lei? Quanta voglia di vivere ha oggi?
«Tantissima. Mi sveglio ogni mattina alle sei e mezza con un progetto in testa. Questa mattina per esempio ho immaginato una città piena di luci, un po’ come un tetto di stelle».
Lei voleva fare l’architetto da bambino?
«Manco per sogno. Volevo fare l’artista».
E come andò?
«Abitavamo nell’appartamento sopra a quello di Giorgio Castelfranco, storico dell’arte, altra vittima delle leggi razziali anche se fu lui a recuperare buona parte delle opere pittoriche italiane trafugate dai nazisti. Mi disse: “Tu hai bisogno di un maestro”. E mi portò da De Chirico».
Però.
«Diventai il ragazzo di bottega di De Chirico, andavamo a mangiare da Nino, piano piano conoscevo artisti e galleristi grazie a Giorgio».
Com’era De Chirico?
«Un grande cuore. Quando qualcuno gli portava un’opera chiedendogli se era davvero sua e quindi potenzialmente di grande valore, lui ci pensava un attimo e poi la firmava. “Ma sì”, diceva, “l’ho fatta io, adesso me la ricordo”».
Firmava i falsi?
«Firmava quello che sentiva suo».
Che cosa è l’arte?
«Quello che ti fa vedere cose invisibili».
Nella sua «Nuvola» a Roma c’è una lotta segreta tra una geometria che si vede e una non definita.
«È così. L’architettura è arrivata nella mia vita dopo una lunga pratica d’arte pittorica. Le confesso una cosa: ancora oggi quando mi entusiasmo per un progetto, godo al solo pensiero di poterlo disegnare».
Però oggi lei è uno degli architetti italiani più famosi, autore di oltre cinquecento progetti in tutto il mondo.
«Ma all’architettura sono arrivato per casualità e infatti la mia autobiografia l’ho intitolata È stato un caso. Tutto partì da mia madre».
Racconti.
«Le confidai che dopo il liceo avrei voluto fare filosofia. Come lei. Mamma scattò subito: “No, filosofia no”. “Allora architettura”, dissi prendendo una materia a caso. Andò così».
Come furono gli studi?
«Voti non eccelsi, ma esami regolari, lungo e stimolante conflitto intellettuale con Bruno Zevi. Poi mi laureai ma nel frattempo avevo cominciato a fare una delle cose che amo: viaggiare».
Un esempio?
«Partii con un amico. Non avevamo una lira ma volevamo andare al nord, perché lì, ci ripetevamo, c’erano le belle donne. Ci diede un passaggio Sandro Ciotti che all’epoca girava l’Italia per fare uno dei suoi documentari per la Rai».
Ma al nord ci è poi arrivato?
«Sì, dopo aver fatto lo scaricatore di ghiaccio al mercato di Milano, il muratore in Germania, il cameriere in Francia, il pizzaiolo in Danimarca».
E le donne?
«Filippa. Danese, bellissima. Ci guardammo, ci salutammo e ci amammo. Per cinque anni».
E intanto lei continuava a viaggiare.
«Frequentavo sempre gli ambienti di sinistra a Roma. Con amici decidemmo di andare a Cuba. Mica facile: dovevi passare per Praga. Lì ci mettemmo a fare i cortadores, tagliatori di canna da zucchero. L’autarchia e quelle cose lì. Uno di noi, folgorato, non voleva più tornare».
E come andò?
«Intervenne Che Guevara in persona».
Come lo convinse?
«Dicendogli che il primo dovere di un rivoluzionario è amare la propria madre».
Non fa una piega.
«Ora che ci penso anche Kim Il-sung, il dittatore della Corea del Nord negli Anni 70 e 80 mi ha invitato a raggiungerlo lì. Ma non sono andato. Non ricordo bene perché».
Forse perché un po’ di paura ce l’aveva anche lei?
«Ma io ho combattuto. Quando vennero il Sessantotto e la lotta armata, io stavo a Roma. Nella battaglia di Valle Giulia stavo dalla parte dei rivoluzionari. Solo molti anni dopo ho scoperto che quel giorno ho combattuto contro Michele Placido: per sopravvivere a Roma si era arruolato in polizia».
L’ultima volta per chi ha votato?
«Pd. Ma tanti anni fa».
E di recente?
«Niente. E non è una questione di persone, è una questione di problemi enormi, globalizzati, che hanno bisogno di risposte troppo grandi».
Se le dico «Berlusconi» che cosa le viene in mente?
«Un genio. È riuscito a riconnettere politica e soldi, cosa che non avveniva dalla Rivoluzione Francese, quando nacque la piccola borghesia. Quando io e Doriana facemmo la Fiera di Milano, una cosa gigantesca da oltre un milione di metri quadri, lui voleva fare dell’inaugurazione un rilancio elettorale. Ero indeciso: andare o non andare a tagliare il nastro?».
Come andò?
«La sera prima mi chiamò mia madre, comunista della prima ora: “Se gli stringi la mano, sarà per me un dolore immenso”, mi disse. Non andai. Berlusconi si arrabbiò tantissimo».
E come nacque la Casa della Pace a Giaffa?
«Mi chiamò Shimon Perez. Non aveva né i soldi né il luogo dove fare quel centro, ma voleva me. Dissi di sì subito, senza pensare né al guadagno né alle cose pratiche. Ci ritrovammo a Tel Aviv con Clinton e Gorbaciov. Cena in un albergo: Bill che suona il sax e Michail che balla con Raissa. All’epoca la pace sembrava possibile».
Se le dico «Giorgio Armani» che cosa le viene in mente?
«Un amico. Sa che cosa mi ripete spesso? Mi dice: “Massimiliano, tu te la tiri troppo poco”».
Le magliette nere che lei indossa sempre sono di Armani?
«No. Non le dirò mai dove le prendo. Le dico che ne ho 150, tutte uguali».
E se le dico «Renzo Piano»?
«Mi viene in mente Parigi: abitiamo uno sopra l’altro nello stesso appartamento».
Siete amici?
«Ci conosciamo bene».
Come ha incontrato Doriana Mandrelli, sua moglie nonché socia di studio?
«Ho tre versioni che racconto di solito, scelga: vuole la uno, la due o la tre?»
La due.
«Era una bellissima ragazza, era stata mia allieva. Ci innamoriamo, ci sposiamo, facciamo due figlie, Elisa e Lavinia. La amo da... non posso dire da quanti anni, non sta bene».
Che cosa ha portato Doriana nella sua vita?
«Il coraggio».
Non ci credo: lei non ne ha?
«È così, lei ha una forza gentile che mi spinge a fare le cose. Doriana ha trovato un modo perfetto per definire la nostra unione: io sono il tronco, forte ma rigido, lei è fiori e foglie, aggraziata e con gusto».
Se le dico «Vittorio Gassman»?
«Voleva farmi fare il progetto di un centro teatrale. Si presentò in studio con una cartella tipo la borsa di uno studente delle elementari. Poi andammo a casa sua. Provava ad aprire l’armadietto dei liquori, ma quando sentiva i passi di sua moglie si fermava. Un grandissimo».
Se le dico «Maurizio Crozza»?
«Dico che sono più divertente io».
Ma come?
«Ma dai, gliel’ho anche detto: faccio più ridere io, lui mi fa troppo effeminato».