la Repubblica, 17 aprile 2025
Umberto Eco. Siamo tutti figli e nipoti di Giobbe.
Raramente, nell’arte medievale, il martire è rappresentato imbruttito dai tormenti come si era osato fare col Cristo. Nel caso di Cristo, infatti, si sottolinea l’immensità inimitabile del sacrificio compiuto, mentre nel caso dei martiri, per esortare a imitarli, si mostra di solito la serenità serafica con cui essi sono andati incontro alla loro sorte. Ed ecco che perfino una sequenza di decapitazioni, tormenti sulla graticola, asportazione dei seni può dar luogo a composizioni aggraziate, quasi in forma di balletto. Si manifesta così una tendenza all’eccessiva “pulcrificazione” di un fatto dolorosissimo, nella quale più che il tormento conta la forza virile o la dolcezza femminea mostrate nell’affrontarlo. Non di rado si assiste anche a compiacenze omofile, prova ne siano le varie rappresentazioni rinascimentali e barocche del martirio di San Sebastiano.
Che il tema fosse particolarmente sentito nei secoli del Medioevo, ma anche oltre, era dovuto al fatto che, in epoche in cui la vita era più breve della nostra e si cadeva facilmente preda di pestilenze e carestie, in uno stato di guerra quasi permanente, la morte appariva come una presenza ineliminabile. Molto più di quanto non accada oggi, quando, vendendo modelli di giovinezza e prestanza, ci si sforza di scordarla, occultarla, relegarla nei cimiteri, nominarla solo attraverso perifrasi. Oppure diesorcizzarla riducendola a semplice elemento di spettacolo, grazie al quale si dimentica la morte propria per divertirsi con quellaaltrui.
In molti cicli pittorici, come ad esempio nel camposanto di Pisa, viene celebrato il “Trionfo della Morte”. A Roma, durante il trionfo dei condottieri vittoriosi, un servo stava accanto al celebrato sul cocchio e gli ripeteva continuamente «ricordati che sei un uomo», in una sorta di memento mori.
In epoca moderna, forse anche in concomitanza con l’esperienza dei primi anfiteatri anatomici, all’idea ancora carnascialesca del trionfo si sostituisce, nella letteratura penitenziale, la descrizione minuta e orripilante dei sussulti dell’agonia o del corpo morto in putrefazione. Ma alla meditazione sul dolore si unisce, per le anime accese da misticismo, la ricerca del dolore come strumento di salvezza. Di lì le varie forme di penitenza, cilici, flagelli, digiuni, che raggiungono, specie in epoca barocca, forme di algolagnia (il provare piacere sessuale mediante il dolore, ndr ).Si veda la mensa miserabile e miseranda dei santi penitenti. Come il Giuseppe da Copertino di una Vita settecentesca, a cui fornivano a mensa erbe e frutti secchi, e fave cotte, condite soltanto con amarissima polvere, e il venerdì d’altro non si cibava che di un’erba così amara e disgustosa che solo a lambirla con l’estremità della lingua lasciava per più giorni una sensazione di nausea.
Con lo sviluppo della medicina rinascimentale, il dolore fisico appare non come un bene da perseguire ma come un male da eliminare. E se i santi continuano a tormentarsi, i medici s’impegnano a diminuire la quota di dolore fisico esistente nel mondo. Ma se da allora il medico combatte per ridurre i dolori del corpo, i filosofi sembrano invece accentuare in termini laici la tendenza cristiana a considerare il dolore come strumento di salvezza. Certo non occorreva attendere il cristianesimo, perché già Eschilo, nell’ Inno a Zeus dell’ Agamennone, ci ammoniva che Zeus guidando il pensiero dei mortali ha stabilito che attraverso il dolore il sapere acquista potenza. Quando, nel sonno, stilla davanti al cuore il tormento memore del dolore, la saggezza raggiunge anche coloro che la respingono. L’eroe tragico è colui che attraverso il dolore giunge infine alla conoscenza e capisce le ragioni della sua sofferenza.
Remo Bodei ha scritto belle pagine sul tema del dolore nella filosofia romantica, e sul modo in cui la sofferenza si è fatta tramite di conoscenza, da Hölderlin a Nerval, da van Gogh a Nietzsche. Egli ci ricorda che questa via alla “cognizione del dolore” rappresentava un rovesciamento del detto dell’Ecclesiaste secondo il quale qui auget scientiam, auget et dolorem,
ossia chi aumenta il grado di conoscenza accresce anche la propria sofferenza. Nel pensiero biblico decidere di non sapere le cause nascoste delle cose, i motivi del nostro malessere, rassegnandosi al destino e alla volontà divina, costituiva, oltre che il massimo atto di fede, anche il più alto grado disapienza, e proprio questo ci insegna la vicenda di Giobbe.
Nel mondo romantico, invece, avviene l’inverso. Ignorare il dolore non aiuta, anzi, solo attraverso il dolore si giunge alla conoscenza, qui auget dolorem, auget et scientiam, chi aumenta il proprio dolore aumenta anche la conoscenza. Quel che conta è, allora, non tanto la conoscenza del dolore, bensì una conoscenza ottenuta per mezzo del dolore.
Con Fichte, Hölderlin, Hegel e Schelling nasce l’incontro tra la filosofia e il tragico, tra la conoscenza serena e il dolore tormentato,non più in chiave religiosa o di rappresentazione artistica della passione e del martirio. Con Hölderlin, solo strappandosi quasi da se stessi e sprofondando nell’alterità come in un «abisso», unicamente pensando «al limite estremo della sofferenza» e della follia, si può giungere alla gioia squarciando il velo della realtà. Insomma, il sapere esige una discesa del pensiero agli inferi.
In Hegel la filosofia ha il compito di farsi carico di tutta «la serietà, il dolore, la pazienza e il travaglio del negativo», deve reggere al pensiero stesso della contraddizione, attraverso un metodo che Bodei definisce omeopatico, di “mitridatizzazione” e di assuefazione progressiva alla sofferenza.
Una complessa metafisica del dolore viene elaborata nel XIX secolo da Arthur Schopenhauer, per cui la stessa filosofia nasce dalla cognizione del dolore. Alla ricerca dell’essenza della vita, Schopenhauer la scopre nella presenza della «volontà di vivere», una forza irrazionale che spinge l’uomo a potenziare sempre più la sua esistenza corporea e ad arricchirla, senza rendersi conto che in questo modo egli non fa che accrescere il dolore di vivere. Quanto più si ha brama di vivere, tanto più si soffre.
Ne I demoni Dostoevskij scrive che «un dolore autentico, indiscutibile, è capace di rendere talvolta serio e forte, sia pure per poco tempo, anche un uomo fenomenalmente leggero; non solo, ma per un dolore vero, sincero, anche gli imbecilli son diventati qualche volta intelligenti, pure, ben inteso, per qualche tempo». Ma non sempre la conoscenza attraverso il dolore è stata ragione di accrescimento spirituale, se non nel senso che, attraverso l’esperienza del dolore, l’uomo apprende che la vita stessa è dolore. Se si salva, si salva nella celebrazione poetica di questa ineliminabile tonalità tragica dell’esistenza. Basti ricordare Leopardi e, per esempio, ilCanto notturno di un pastore errante dell’Asia.
Ma il Romanticismo, mentre filosoficamente esalta la funzione conoscitiva e redentrice del dolore, nell’arte coltiva laSchadenfreude, e cioè il gusto per il dolore altrui. Esso era già presente in epoca barocca, si veda per esempio, neLa casa dell’eternità di Padre Segneri, lo spettacolo da basso impero dei dannati, che traggono la maggior pena nel vedere Iddio che ride di loro. Da cui il godimento per il dolore dei peccatori, godimento che non era neppure assente dalla Divina Commedia, se ben ci pensate.
Come diffondere, come impartire un’educazione al dolore, non saprei. Ma la ritengo una delle frontiere della medicina, della psicologia e forse della filosofia di domani. Così come il filosofo impara a essere-per-la morte, tutti noi dovremmo imparare a essere- per-il-dolore, ad alfabetizzarci rispetto a esso: se non a conoscere attraverso il dolore, almeno a conoscere il dolore, ad accettarne la funzione biologica. Qui mi fermo, e vi lascio al vostro prossimo mal di denti.