La Stampa, 17 aprile 2025
Intervista a Milo Manara
«A un certo punto ho capito che volevo essere un fumettaro, e che volevo fare fumetti per adulti». Le donne di Milo Manara, tanto inconfondibili nelle espressioni e nei corpi da essere divenute un archetipo di bellezza, hanno una lunga storia che comincia al liceo artistico di Verona, passa dai giornaletti erotici degli Anni 70 e dalla lezione di un maestro come Hugo Pratt, per approdare al disegno d’autore del decennio successivo e lì restare fino ad oggi. Nel frattempo, il disegnatore ha cavalcato l’onda della contestazione sessantottina senza mai perdere di vista il carattere pop della sua opera, anzi, rivendicandolo contro gli snobismi dell’arte contemporanea di serie A. Settantanove anni, lavora giorno e notte alla seconda parte de Il Nome della Rosa nella sua casa in collina in Valpolicella, dove vive con la moglie.
Manara, che ritmi di lavoro ha?
«Spero di finire Il Nome della Rosa per settembre in modo da uscire entro la fine dell’anno, dunque lavoro fino alle tre di notte, come ho sempre fatto da cinquant’anni a questa parte. Al mattino però mi alzo abbastanza tardi».
Quando ha capito che sarebbe diventato un artista?
«Da ragazzino sapevo già che la mia vita sarebbe stata legata al disegno anche se non conoscevo i fumetti perché mia madre, una maestra di quelle all’antica, me li proibiva in quanto diseducativi: a casa mia non entravano, ma c’erano molti libri e i grandi classici per ragazzi, all’epoca, erano corredati di illustrazioni meravigliose. Ho iniziato a disegnare da quando ho tenuto in mano una matita».
Alle superiori ha frequentato il liceo artistico.
«Non avrei saputo quale altra strada prendere, probabilmente sono stato consigliato dai professori delle medie al termine della scuola».
Che sogno aveva all’epoca?
«Volevo fare il pittore, per questo avevo pensato di iscrivermi all’Accademia di Belle arti, ma mi bocciarono alla prova di disegno all’esame di ammissione alla maturità e per me fu una delusione terribile, perché metteva in discussione i miei sogni. Fu un tale dolore che si risveglia anche oggi, quando passo davanti all’edificio delle Belle arti a Venezia. Così mi sono iscritto ad Architettura».
E al fumetto quando ci è arrivato?
«Piuttosto tardi, intorno al ’63-’64. La Biennale di Venezia sulla pop art americana fu una grande rivelazione per me. Una serie di elementi poi ha congiurato perché facessi fumetti: per mantenermi agli studi lavoravo con lo scultore Miguel Berrocal, dove disegnavo le istruzioni di montaggio e smontaggio delle sue opere. La moglie si faceva arrivare dei fumetti e così ho scoperto Barbarella e altri fumetti per adulti: è stata una rivelazione, era il mestiere che volevo fare io, disegnare storie per adulti. Da allora ho cominciato a cercare un editore e nel 1968 è uscito il mio primo fumetto».
Anno fatidico, lei partecipava alla contestazione?
«Sì, contestavamo tutto, compreso il meccanismo dell’arte. A volte davanti a noi in piazza c’era Emilio Vedova, gridavamo “no all’arte dei padroni”. Piazza San Marco non era il posto ideale per manifestare: la polizia chiudeva tutte le vie d’uscita e partivano le cariche della celere venuta da Padova».
Le ha mai prese dalla polizia?
«Qualche manganellata l’ho presa, ma per fortuna non sono mai stato arrestato. Quelli che venivano fermati venivano portati nei palazzi delle Procuratie, vicino San Marco, dove si trovava il quartier generale della celere, e picchiati come poi sarebbe successo a Bolzaneto, al G8 di Genova del 2001. C’era molta più libertà allora di oggi, non perché ci fosse un sistema più liberale, ma perché dal ’68 in poi le libertà ce le siamo prese noi».
Anche l’arte era al centro della protesta.
«Sì, l’arte figurativa era identificata con l’arte borghese, ma dopo le avanguardie c’è stato uno scollamento mai visto fra popolo e arti, e se tu avessi fatto qualcosa di comprensibile saresti stato additato come uno str…o. Oggi Banksy forse ha recuperato il ruolo popolare dell’artista. Quanto a me, mi sono chiesto che ruolo potevo avere e mi sono sentito condurre fatalmente verso il fumetto: l’unico regno dove il saper fare fosse tenuto in conto».
Il suo primo fumetto?
«In Italia negli Anni 60 era scoppiato il fenomeno Diabolik, che ha originato copie più o meno buone ma comunque orientate sull’erotismo, come Satanik, alcune disegnate benissimo come le storie di Magnus. La richiesta di disegnatori era molto alta e l’editore di Genius, un fotoromanzo, trasformò in fumetti la sua pubblicazione: è così che ho cominciato».
È vero che per disegnare Jolanda de Almaviva si è ispirato a Senta Berger?
«Sì, ero ammaliato dalla sua bellezza. Il personaggio esisteva già ma era piuttosto anonimo: pubblicato da Ediperiodici, il principale editore di fumetti per adulti, erano prodotti in serie la cui unica ambizione era vendere immagini di donnine scollacciate ammantate di storie d’avventura più o meno verosimili. Un lavoro massacrante, 120 tavole da consegnare ogni due settimane. I primi giorni erano tavole ambiziose sul piano grafico, ma poi per rispettare i tempi dovevo abbandonare la qualità per la quantità. Mi è servito per imparare il mestiere e mi ha dato di che vivere, e bene, nei primi Anni 70».
Ma quando è diventato veramente riconoscibile il suo segno?
«Ho cominciato ad avere il mio stile attuale con L’estate indiana, fra il ’78 e il ’79. Avevo già fatto Lo scimmiotto nell’ultimo periodo in cui lavoravo per il Corriere dei Ragazzi, ma in quel caso disegnavo alla Moebius, un autore per cui avevo preso una grande cotta… È stato Hugo Pratt, l’autore al mondo che mi piaceva di più, a obbligarmi ad abbandonare lo stile-Moebius e a pulire il mio segno».
La faceva soffrire il fatto che in Italia il fumetto fosse considerato un’arte minore?
«Faceva soffrire di più Pratt, che avvertiva la mancanza di considerazione della sua opera, malgrado fosse conscio del suo valore, io invece sono sempre stato orgogliosamente un fumettaro. Tornando all’arte, persino gli investitori oggi si stanno accorgendo della follia dei 20 milioni per la banana di Cattelan. Quel mondo sta crollando fin dalla Merda d’artista di Piero Manzoni. Si salva l’esperienza di Frigidaire, di gran lunga la produzione culturale più importante nata in Italia, ma purtroppo protagonisti come Stefano Tamburini e Andrea Pazienza sono morti troppo giovani».
Lei ha lavorato con Fellini, che ricordo ne ha?
«La storia era Viaggio a Tulum, io l’ho raggiunto a Chianciano, dove si trovava alle terme, e abbiamo fatto tardi la sera, lavorando su disegni e testo: sono dovuto rimanere la notte ma non c’era posto in hotel, così Fellini ha fatto portare un lettino e mi ha fatto dormire praticamente nella stessa camera con lui e Giulietta. Ero talmente emozionato che quasi non ho chiuso occhio».
La soddisfazione e il rimpianto più grande in più di mezzo secolo di carriera?
«Fra le soddisfazioni, la proposta di Pratt di disegnare una sua storia, o quando mi chiamò Fellini per collaborare con lui, ma ciò che mi ha reso più orgoglioso è stato l’inserimento da parte del Sudafrica dell’apartheid dei miei libri di Giuseppe Bergman fra i testi proibiti. Quanto ai rimpianti, il non aver collaborato con Moebius, per due volte… e con l’autore di Barbarella, ma la delusione più grande resta la bocciatura all’esame di ammissione alla maturità del liceo artistico. Un dolore profondo, fu come mettere in dubbio la mia stessa esistenza».