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 2025  aprile 17 Giovedì calendario

Jany McPherson: "Nel mio piano i suoni d’infanzia e di Cuba"

Un crogiolo di musicalità diverse, un crocevia di influenze sintetizzate nell’arte sopraffina di Jany McPherson. La pianista, cantante e compositrice cubana è pronta a debuttare al Blue Note, sabato 19 aprile a Milano, portando in dote la multiforme bellezza del suo nuovo album A long way, accompagnata in trio da Luca Bulgarelli al contrabbasso e Amedeo Ariano alla batteria. «È la prima volta che suono in un Blue Note – svela -, ma qui a Milano c’ero già stata da spettatrice a un concerto di Kurt Elling. Per quelli della mia generazione è sempre una grande sfida salire su questo palco, che sia Milano, New York o Tokyo. Di concerti ne ho fatti tanti, ma questa è pur sempre una prima volta e, credo, non l’ultima».
Assieme ai nuovi brani cosa proporrà del suo repertorio?
«Oltre a A long way, suonerò anche pezzi del disco precedente Solo piano! e proporrò una personale rilettura di alcune grandi canzoni del songbook internazionale, standard immortali e senza tempo. Rivisitarli significa per me mettermi al servizio di quella eccelsa musica. Preferisco però scegliere brani non troppo inflazionati, per esempio uno degli anni Quaranta come Maybe You’ll Be There. Mi piace far scoprire al pubblico grandi canzoni, conosciute sì ma non continuamente reinterpretate. Così non farò né Misty né
Summertime né La ragazza di Ipanema».
A long way è una fotografia del suo cammino
artistico?
«Sì, racconta diversi momenti della mia vita. Proprio la title track è un omaggio in particolare a tutto il mio percorso personale e artistico. Ero bambina quando, senza alcuna conoscenza musicale, cominciai a suonare il piano. Mio padre, chitarrista, aveva notato la mia attitudine e a cinque anni già suonavo con lui alcune canzoni. Poi lasciai la mia città, Guantanamo, per gli studi accademici di musica classica alla scuola di arte nazionale de L’Avana e a 23 anni mi decisi a lasciare Cuba per la Francia. A Montecarlo avevo un contratto per suonare al Casinò. Da lì incontri e collaborazioni con musicisti francesi e internazionali. Ecco, A long way racconta questo cammino. Con un messaggio: si deve sempre percorrere la propria strada con entusiasmo e con fede. Essendo più onesti possibile nelle intenzioni sia personali sia, nel mio caso, musicali».
È lei la Miss Butterfly che racconta nel disco?
«Non solo. È un brano che parla dei cambiamenti nel corso della vita: è la metafora del bruco che diventa farfalla a indicare l’evoluzione da una condizione all’altra pur rimanendo la stessa entità. Il bruco si batte per rompere una struttura a un certo punto diventata prigione da cui dover uscire. La vita è una continua trasformazione, purché sia sempre l’anima a guidarla. In quanto musicista io ho semmai il compito di captare idee che sono già sopra di me, devo soltanto afferrarle con le mie mani».
Fire in my hands s’intitola un altro brano: si sente una sorta di terapeuta che attraverso il fuoco della musica cura se stessa e gli altri?
«Esattamente. Io mi occupo unicamente di prendere delle idee e tradurle in musica e poi offrirle al pubblico. Sono molto grata per tutta questa ispirazione che mi è stata donata. Il brano Fire in my hands riassume molto bene le mie possibilità pianistiche e tutto ciò che è dentro di me. Qui si può ascoltare in modo molto libero il mio percorso con tutte le mie influenze musicali: dal piano classico alle radici cubane. Un mix frutto della colonizzazione spagnola e dei ritmi afro-cubani, un melting pot culturale unito al jazz».
In Tú y Yo c’è la presenza alla chitarra di John McLaughlin...
«In un brano che evoca gli standard americani degli anni d’oro del jazz, simile al genere feeling cubano degli anni 40. Con John McLaughlin ho avuto la fortuna di fare l’ultima tournée della sua carriera, The Liberation Tour. Ha 83 anni e non vuole più stare in giro per il mondo. A gennaio però ho suonato ancora con lui a Montecarlo e forse replicheremo a maggio. Mi chiamò per la prima volta nel 2022 come special guest, facemmo un concerto al festival jazz di Montreux ed entro fine anno è probabile che esca un live di quella serata. Ormai mi ha inclusa stabilmente nel suo quintetto e così per me è stato naturale chiedergli di suonare nel mio disco. E poi condividiamo quel Mc nel cognome».
Ma lei ha origini scozzesi?
«Se John è britannico, per me è un po’ diversa l’origine del cognome. Mi hanno detto che i miei antenati erano irlandesi che emigrarono negli Stati Uniti. Da lì poi i bisnonni andarono in Giamaica. Sono americani anche i bisnonni del ramo materno, Williams. Quindi io provengo da Giamaica e Stati Uniti».
Torniamo a Cuba e ai Buena Vista Social Club.
«Quella mia collaborazione la porto ancora nel cuore. E con la grande Omara Portuondo avevo già avuto un’esperienza precedente a Cuba, quando ero pianista e arrangiatrice dell’orchestra Anacaona, un organico tutto al femminile fondato nel 1932. Poi ritrovai Omara (oggi 95enne, ndr) a Nizza nel 2013 a un festival dove era prevista la presenza anche dei Buena Vista. Nei camerini Omara mi vide, mi riconobbe e mi disse: tieniti pronta che a un certo punto ti chiamerò con noi sul palco. Così ho cantato con loro, con i miei conterranei in un anfiteatro strapieno, ed è stato un momento indimenticabile».
Lei è di Guantanamo, un nome che evoca anche molto altro...
«Quando uno dice Guantanamo, le prime cose a cui si pensa sono in effetti la base navale statunitense e le prigioni dei terroristi islamici. Eppure io lì ho vissuto un’infanzia del tutto normale e serena. La presenza americana non si avvertiva per niente. Sono cresciuta con la mia famiglia, giocavo con i miei amici in mezzo alla strada, andavo a scuola, al cinema, come se niente fosse. Il territorio americano della base è lontano dalla città e noi guantanameri non ci passiamo nemmeno. L’unico contatto con l’America era attraverso la televisione. Con le nostre antenne riuscivamo infatti a prendere il segnale di un canale tv della base militare e ricordo alcuni programmi di musica, tra cui Soul train.
Fu lì che vidi per la prima volta cantare e ballare Michael Jackson. Avevo 5-6 anni e sono letteralmente impazzita. Volevo imitare lui e Aretha Franklin. Direi che degli americani a Guantanamo questa è stata l’unica influenza. La migliore possibile, per una bambina cubana che ha vissuto un’infanzia nella musica».
Altri musicisti in famiglia?
«Tutti erano artisti. Mio padre musicista, ma poi c’erano in casa scultori, pittori, ballerini. Ricordo raduni a casa con tutti questi parenti artisti, si facevano delle jam session con mio padre e suoi amici. Non potevo che seguire quella strada».