Avvenire, 17 aprile 2025
Quegli ex soldati che si oppongono «alla guerra di Netanyahu»
Gli ultimi sono stati duecento ex ufficiali di polizia. Almeno fino ad ora, perché la mobilitazione cresce di ora in ora. Uno dopo l’altro, migliaia di riservisti delle forze di sicurezza israeliane – in maggioranza pensionati ma anche in servizio attivo – si stanno unendo al grido della società per la fine della guerra a Gaza. O, meglio, come recita la formula scritta e pubblicata in ebraico e in inglese, per un accordo che riporti a casa i 59 ostaggi ancora nelle mani di Hamas «anche se ciò significa mettere fine al conflitto». «Abbiamo scelto le parole con molta attenzione. Ogni termine, perfino ogni virgola è stata discussa. Ci abbiamo messo dieci giorni e diciassette versioni per arrivare a un testo condiviso che equilibrasse le differenti istanze. Alcuni premevano per una posizione più forte, altri volevano una petizione più soft», racconta in un bar di Giaffa Guy Poran, 69 anni, imprenditore in pensione nel settore dell’high-tech, per oltre vent’anni volontario nell’aeronautica di Tel Aviv. Un corpo militare di enorme prestigio. «Ne siamo consapevoli. Per questo non abbiamo agito a cuor leggero. Certo, non immaginavamo che avesse tanta eco» prosegue il promotore di quella che i media hanno soprannominato “la rivolta dei piloti”.
Iniziata giovedì scorso – quando è stata diffusa la lettera con 970 firme –, si è estesa al resto delle Forze armate (Tzahal, l’acronimo). Circa 10mila adesioni, numeri triplicati nel giro di 48 ore. Secondo una mappa ancora incompleta ottenuta da Avvenire, nel giro di sette giorni hanno chiesto lo stop alle armi riservisti di almeno sette realtà: oltre 500 delle unità speciali, 200 medici militari, 1.700 veterani carristi, più di 2.500 paracadutisti, 1.250 della Marina, inclusi 500 ufficiali e 250 della formazione scelta “Shayetet 13”, un migliaio di veterani dell’intelligence. Un quinto ha combattuto dopo il 7 ottobre. A questi si sommano 400 ex agenti del Mossad – compresi gli ex capi Dani Yotam, Efraim Halevi e Tamir Pardo – e diverse centinaia dello Shin Bet. Nonché cento allievi del National security college – accademia militare d’élite –, 200 laureati in sicurezza del prestigioso programma Talpiot e 1.500 genitori di soldati.
A scatenare la rabbia dei militari ha contribuito la linea dura del governo di Benjamin Netanyahu che ha definito la protesta dell’Aeronautica una «ribellione di qualche pensionato anarchico radicale». Mentre il capo delle Forze armate, Eyal Zamir, in accordo con il comandante dell’Aeronautica, Tomer Bar, ha rimosso dall’elenco della riserva i piloti attivi, accusati di ingerenza politica e di incitamento all’obiezione. Sessanta, secondo Tzahal. Alcune centinaia, sostiene Poran. «Ovviamente la gran parte siamo “ex”. Ma non è questo il punto. Si tratta comunque di un fatto cruciale. I militari, men che meno i piloti, di norma, non intervengono in questioni cosiddette politiche. Questa, però, non lo è. Politiche – o, meglio, di sopravvivenza al potere – sono le ragioni che hanno spinto il premier a rompere unilateralmente l’intesa e a riprendere i combattimenti nella Striscia il 18 marzo. La nostra è un’iniziativa umanitaria per salvare i rapiti. Non invitiamo al rifiuto né diciamo ai soldati che cosa fare». «È una rivolta morale. Chiediamo di mettere gli ostaggi al primo posto. Cosa si aspetta il governo: che stiamo tutti zitti di fronte alla sua negligenza?», afferma Eran Duvdevani, ingegnere meccanico 65enne e pilota di jet commerciali, ex riservista dei paracadutisti e promotore della petizione firmata da questi ultimi, di cui una cinquantina ancora attivi. «Non lasciare indietro nessuno, insieme a quello di portare a termine la missione affidata, è il cardine del rapporto tra Stato e forza armate. Senza fiducia i soldati non rischiano la vita».
La questione è al cuore della società israeliana formata da “civili in armi” perché il servizio militare è obbligatorio e tutti possono essere richiamati come riservisti fino a circa 40 anni. Questo spiega perché immediatamente la “rivolta dei piloti” sia uscita dalle caserme: oltre 100mila cittadini – dai medici agli accademici, dagli scrittori ai manager – si sono pronunciati in loro sostegno. Niente come il dissenso in divisa, però, scuote Tel Aviv.
All’indomani del massacro 7 ottobre, pressoché tutti i riservisti si erano presentati per l’arruolamento volontario in nome della salvaguardia di Israele. Con il protrarsi del conflitto, è aumentata la sensazione di andare a morire e uccidere non per il Paese ma per giochi di potere della leadership. Un anno fa, era arrivato il primo segnale: con una lettera aperta, 40 riservisti avevano minacciato l’obiezione contro l’invasione di Rafah. Cinque mesi dopo, lo scorso ottobre, le adesioni erano diventate 130: i firmatari dichiaravano lo «sciopero dal servizio» fino alla liberazione dei sequestrati. Ora sono 240 e sono riuniti nel gruppo “Soldiers for the hostages”, in prima linea ai cortei di protesta. «Ogni atto di resistenza alla guerra di Netanyahu è una dimostrazione di forza etica. Il rifiuto di combattere è il vero patriottismo, in linea con i valori in cui siamo stati educati», afferma il 29enne Max Hirsch, uno dei fondatori, dopo aver preso parte al conflitto per 66 giorni.
A quella pubblica, si somma poi “l’obiezione silenziosa” la cui crescita è esponenziale. Riguarda, secondo fonti interne, la metà dei riformisti attivi che eludono, con varie giustificazioni il reclutamento. «Ormai non è più un tabù: è entrata nel dibattito nazionale. Si vede dal mutato atteggiamento dei media che hanno smesso di stigmatizzare chi rifiuta», dice Dan Eliav, 63 anni, la cui firma figura fin dalla petizione dello scorso aprile. Se Netanyahu ostenta sicurezza, Tzahal è preoccupato. I vertici cercano di ricucire con i ribelli mentre, come raccontano fonti ben informate, per ridurre la dipendenza dai riservisti, a Gaza è stato incrementato il numero di soldati di leva. Netanyahu non vuole cedere: la guerra non deve finire.