Corriere della Sera, 16 aprile 2025
Preben Elkjaer: «Mi voleva il Real Madrid, ma ho scelto il Verona. Dicevano che non avrei vinto lo scudetto, oggi è dentro di me da 40 anni»
Preben Elkjaer-Larsen riceve un telegramma dal Real Madrid il giorno dopo un gol storico e bellissimo, quello che suggella la rimonta ai danni del Belgio, da 0-2 a 3-2, nel terzo match dell’Europeo ’84. Danish Dynamite, la Danimarca più bella di sempre – sì, anche di quella che vinse il titolo continentale nel ’92 – si è qualificata per la semifinale del torneo e il Real, che è in cerca di un attaccante perché Santillana e Juanito stanno invecchiando, ha avuto una folgorazione per il bisonte danese del Lokeren. «Nel telegramma c’è scritto di non prendere impegni, perché alla fine dell’Europeo mi avrebbero raggiunto per firmare il contratto». E lei? «Io volevo venire in Italia». Disse di no al Real Madrid? «Non dissi niente. La notte seguente Mascetti si introdusse nel nostro ritiro, cosa vietatissima dal c.t. Piontek, e discutemmo. Lo feci sgattaiolare dentro all’una, chiesi assistenza al direttore della Hummel, che era un amico, discutemmo fino alle tre e mezza e alla fine ci stringemmo la mano. In breve si seppe dell’accordo e il Real non si fece più vivo».
L’opera
Esce venerdì il libro «Lo scudetto del Verona» scritto da Paolo Condò con Adalberto Scemma (editore Solferino, 304 pp, 18 euro). Un’opera da non perdere in 40 capitoli con interviste, aneddoti, retroscena per rivivere la clamorosa impresa di una squadra capace di restare in testa dalla prima all’ultima giornata
Firmò il contratto senza farsi assistere da un procuratore? Parlando a bassa voce per non farvi scoprire? Ma che storia fantastica è? «Il mio amico era un osso duro, vestiva da capo a piedi la Danish Dynamite, seppe negoziare al meglio partendo dal presupposto che io volevo firmare perché volevo venire in Italia. All’epoca il Real non era ancora quel che è diventato adesso, o meglio il suo appeal faticava a competere con la serie A. Meglio il Verona». Ne deduco che lo conosceva bene. «Macché. Quando Mascetti mi telefona e si presenta, io gli do l’appuntamento, gli spiego come entrare senza farsi vedere, e poi corro da Laudrup e Berggreen, che già giocavano in Italia, per sapere com’era il Verona».
«Non vincerai lo scudetto»
E cosa le dicono? «Laudrup ci pensa un po’ e poi sorride, “Bellissima città” dice. Anche Berggreen, all’epoca al Pisa, c’era stato in gita con la moglie: “Mi ha fatto visitare tutta l’Arena, sai che lei è fissata. Beh, Michael ha ragione, è un gran bel posto”. Allora io li guardo negli occhi e dico: “Non vi ho chiesto di Verona, vi ho chiesto del Verona. Voglio sapere com’è la squadra”. In realtà loro avevano capito benissimo... Certo. Si guardarono un po’ imbarazzati, non sapevano come dirmelo, alla fine Berggreen si decise: “Senti, non vincerai lo scudetto ma giocherai in una buona squadra. Se dai il massimo la porti in Coppa Uefa e ti fanno pure una statua”». Disse proprio «non vincerai lo scudetto»? «Parola per parola. Fa ridere, eh? A fine stagione glielo rinfacciai, cos’è che non dovevo vincere scusa? Tu di calcio non capisci niente...».
Si dice che né per lei né per Briegel si trattò di amore a prima vista. È vera la storia che... «È vera. Quando Peter e io incontrammo per la prima volta i compagni, ci dicemmo a bassa voce che sarebbe stata dura vincere qualche partita con quella banda di nanetti. Del resto ci avevano preso per quello, aggiungere un po’ di fisicità. Erano tutti mignon! Fu sufficiente un allenamento, però, per capire che la qualità tecnica della rosa era fuori dal comune. “Ho cambiato idea. Secondo me qualche partita la vinciamo” disse alla fine Briegel, e io pensai lo stesso. Per dirlo, però, attesi il 3-1 al Napoli della prima giornata» (...)
Il gol senza scarpa
Il gol più famoso è sicuramente il secondo, quello a piede nudo contro la Juventus. Scommetto che quando la fermano per strada è il primo episodio che le chiedono di raccontare. «In Italia sì, colpì moltissimo l’immaginario popolare. In Danimarca no, direi che se lo sono scordato. Comunque di quel gol ricordo innanzitutto l’importanza, era il 2-0 alla Juve, la blindatura del risultato: dopo il Napoli di Maradona avevamo battuto anche la Juve con lo scudetto cucito sulla maglia. Eravamo forti. Poi, la dinamica esatta consiste in una pedata di Pioli che non mi fa direttamente perdere la scarpetta, ma me la sposta. Faccio altri due passi e sento che mi dà fastidio. Allora agito il piede e la faccio volar via: sono io a deciderlo, capisce? È l’intuizione giusta, perché il tiro risulta imparabile anche da scalzo. Ricordo che non tutti i compagni se n’erano accorti, qualcuno mi abbraccia e basta, altri guardano prima il piede, dov’è rimasto soltanto il calzino, e scoppiano a ridere».
Va lei a riprendere la scarpa o qualcuno gliela porta? «La cosa curiosa è che non me lo ricordo. E sì che me l’avrete chiesto mille volte. Comunque, due anni dopo Pioli viene acquistato dal Verona e ci ritroviamo compagni di squadra. Quanto l’ho preso in giro, bonariamente s’intende. “Stefano, sei troppo lento per me, è da quel giorno che te lo dico...” Ho tifato molto per lui quando ha vinto lo scudetto da allenatore, una bravissima persona» (…)
Il giorno della vittoria
Siamo arrivati all’ottava delle sue reti, la più importante per definizione: l’1-1 siglato all’Atalanta, la ventinovesima giornata a Bergamo, fu il gol scudetto. «Ero nervosissimo, passai in bianco la notte della vigilia, a guardare il soffitto. Certo, ci bastava un punto in due gare. Ma eravamo ormai stanchi, in testa dal primo turno, e quando sei così vicino a un traguardo incredibile ti vengono mille paure. Metti che oggi perdiamo, come si sopravvive a una settimana di attesa dell’ultima giornata? Nessuno lo voleva scoprire». Segna Perico nel finale del primo tempo, pareggia lei in apertura di ripresa. Poi? «Poi la partita si tranquillizza, improvvisamente percepisci che non si corre più alla massima velocità. Io non capivo, ero uno straniero, in piena trance agonistica volevo continuare ad attaccare per vincere. Inizia Volpati a farmi segno con le mani, stai calmo Preben, non ti sbattere troppo. Anche altri, poi: l’1-1 va benissimo, non stuzzichiamoli. Ci si comincia a sorridere quando manca un quarto d’ora, il pareggio accontenta tutti, in pratica non si gioca più. Gli ultimi dieci minuti vago per il campo con gli occhi lucidi, e mi tornano in mente un sacco di cose, tipo i discorsi di Laudrup e Berggreen: “Non vincerai lo scudetto, ma Verona è una bella città”». Invece. «Invece Verona non è bella ma bellissima, e quarant’anni fa ci abbiamo vinto uno scudetto».
È il ricordo più importante della sua carriera? «Lo porto sempre con me, è come se quello scudetto fosse un oggetto dal quale non mi separo mai. Fa parte della mia vita perché è stato il traguardo professionalmente più importante che abbia raggiunto, e perché l’ho ottenuto assieme a una squadra di amici veri, di gente nata per vivere assieme, non solo per giocare. Appena abbiamo qualche giorno libero torniamo sul Garda, a Bardolino ma anche in città, mi vedo con Briegel, con Volpati e Fanna, con tutti quelli che vivono lì attorno. Ci divertiamo ancora molto, si mangia e si beve e si scherza e si canta, ma in un certo senso potremmo anche stare lì seduti senza dirci niente, guardandoci soltanto negli occhi. L’enormità di quello che abbiamo fatto assieme riempirebbe da sola il salone».