La Verità, 14 aprile 2025
La Cina rischia: la sua bolla immobiliare può scoppiare
L’economista: «Trump affronta un problema reale: il deficit commerciale Usa non è sostenibile e la classe media si è impoverita. Ma ai dazi erano preferibili incentivi”.
Giovanni Ferri, economista e professore ordinario di Economia politica all’Università Lumsa di Roma, la scelta di Donald Trump di mettere sottosopra il commercio mondiale con l’annuncio dei dazi era evitabile?
«Il presidente Trump ha affrontato un problema reale, quello del persistente deficit della bilancia commerciale degli Usa. Mentre un deficit temporaneo non è un problema, gli Stati Uniti hanno un deficit persistente dagli anni Settanta e ciò non è sostenibile. Inoltre, la connessa deindustrializzazione ha impoverito la classe media americana. Quindi, qualcosa andava fatto. I dazi sulle importazioni hanno proprio il fine di ridurre tale deficit. Però vi sono due questioni. Prima, gli Usa sono stati per 80 anni paladini del libero commercio e la delocalizzazione produttiva, così come la relativa creazione delle catene del valore globali è partita dalle multinazionali americane. E, perciò, è curioso che siano proprio gli Stati Uniti a fare un’inversione a U. La seconda questione è che smontare le catene del valore globali richiede tempo mentre, nell’immediato, i dazi causano significativi aumenti dei prezzi. Per di più, il livello dei dazi è stato calcolato con formule molto discutibili: rapporto tra deficit (import – export) e valore dell’import. Perciò, l’annuncio dei dazi ha prodotto incertezza ed è stato preso male dai mercati”.
Trump sospende l’applicazione dei dazi tranne che alla Cina. Si è reso conto della sua sconfitta o c’è dell’altro?
«Secondo me, anche vedendo lo sconvolgimento dei mercati finanziari dopo l’annuncio dei dazi, Trump ha deciso di concentrare lo sforzo sulla priorità più importante, perché lo squilibrio commerciale con la Cina è quello che lo preoccupa di più”.
La volatilità innescatasi sui titoli di Stato americani ha portato ad un significativo aumento del costo del debito. A dieci anni il rendimento è passato dal 3,8% al 4,5%. Chi è corso a vendere il debito pubblico americano così massicciamente?
«Solo le autorità del settore, cioè la Sec, sanno con certezza chi ha venduto, ma è presumibile che una parte significativa delle vendite sia venuta dalla Cina, il Paese che si colloca, dopo il Giappone, come secondo detentore di titoli del debito pubblico americano”.
La banca centrale americana (Fed) avrebbe gli strumenti per impedire l’impennata dei rendimenti acquistando quei titoli venduti. Non lo ha fatto. Secondo lei perché?
«Come ho detto, l’innalzamento dei dazi sull’import avrà effetti inflazionistici e penso che Powell sia preoccupato di ciò. Se la Fed avesse acquistato i titoli lo avrebbe fatto stampando dollari e questo avrebbe accresciuto l’offerta di moneta e, dunque, facilitato ulteriori pressioni alla crescita dei prezzi. Di conseguenza, la Fed avrebbe rischiato di mancare il suo obiettivo di tenere l’inflazione sotto controllo. Per questo, non credo in una mancanza di lealtà di Powell a Trump, bensì nel rispetto del vincolo di funzione”.
La Cina può fare a meno del mercato americano?
«Per l’eccezionale crescita della Cina degli ultimi quattro decenni, in larga misura trainata dall’export, l’accesso ai mercati americano ed europeo è stato fondamentale. Dopo la crisi finanziaria globale del 2008, però, a livello mondiale la crescita dell’export è rallentata e nella crescita cinese ha acquisito peso crescente il mercato interno. Collegato a questo maggior peso della domanda interna, si è gonfiata una bolla immobiliare. Le autorità cinesi stanno cercando di evitarne lo scoppio sostenendo la crescita economica in ogni modo possibile. Perciò, la perdita del mercato americano, sebbene esso non sia più determinante come un tempo, è un vero problema perché potrebbe essere l’ultima goccia che fa scoppiare la bolla”.
Di converso gli Usa possono fare a meno del fornitore Cina?
«Sì, ma sopportando dei costi. I processi di riconversione con cui si rimpatriano le catene del valore globali, come accennato, sono costosi e richiedono anni. Nel frattempo, se Trump non sospende anche i dazi sulla Cina, gli Usa sperimenteranno una notevole crescita dei prezzi di quei beni che erano stati a lungo calmierati dai bassi costi di produzione cinesi”.
La Cina può essere un nuovo motore di domanda per i nostri prodotti?
Al pari o paragonabile a quella americana?
«La classe media cinese è un target interessante per l’export italiano, fatto di beni di alta qualità. E l’ingegno italico, la grande flessibilità delle nostre imprese sono quasi certamente in grado di riorientare velocemente i mercati di sbocco. Però, anche qui, ci sono dei costi da sopportare. E poi, commerciare con un Paese democratico è sempre preferibile a commerciare con uno non democratico, dove l’intervento dello Stato potrebbe colpire in qualsiasi momento”.
Può il dollaro smettere di essere la moneta mondiale negli scambi commerciali internazionali?
La cosiddetta dedollarizzazione... «La prima globalizzazione, tra il 1870 e il 1914, aveva l’Impero Britannico come poliziotto del mondo e la sterlina come moneta internazionale. Per passare alla leadership americana e al dominio del dollaro, da cui è poi venuta la seconda globalizzazione che ora sta finendo, ci vollero trent’anni e due guerre mondiali. Anche se dispiace dirlo, è difficile immaginare che la transizione dal dollaro a qualcos’altro possa essere veloce e incruenta”.
L’Unione europea, al netto dei proclami, ha tenuto un profilo molto basso. Non ha applicato ritorsioni neppure contro la decisione americana di applicare dazi – tuttora in vigore – su acciaio e alluminio. Come se lo spiega?
«Ci sono due spiegazioni. Primo, l’incertezza introdotta dagli annunci e dai rinculi di Trump suggerisce prudenza per non ritrovarsi spiazzati nella trattativa. Secondo, l’Ue è un’economia grande ma la coesione politica tra i Paesi membri è bassa e, quindi, aspettare può aiutare a costruire il consenso”.
Tattica ragionevole?
«Come tattica sì, come strategia no. Ma definire una strategia senza un consenso politico è dura!”.
Di cosa parleranno secondo lei Meloni e Trump nel vertice dei prossimi giorni?
«Penso che il nostro premier avrà un certo impatto, come uno dei primi politici Ue ricevuti alla Casa Bianca e anche per le notevoli capacità personali della Meloni. La stima reciproca tra i due leader può aiutare. Immagino che Giorgia Meloni parli di cose molto concrete e mi auguro che riesca a portare a casa un atteggiamento benevolente nei confronti delle nostre eccellenze nazionali. Spero anche che ciò non vada a discapito del negoziato sui dazi a livello Ue. Insomma, i rapporti speciali che Meloni ha saputo costruire sia con Trump che con Von der Leyen debbono essere giocati come un punto di forza a vantaggio dell’Italia”.
Green deal ed Patto di stabilità e crescita. Due totem. Che dovrebbe fare l’Ue?
«In sé, il Patto di stabilità e crescita è una formula definita stupida dallo stesso presidente della Commissione Ue Juncker. Maggiore flessibilità è necessaria in un periodo così turbolento come l’attuale. Il Green deal, dal canto suo, è stato calato sull’Ue con un approccio messianico, come una cosa che andava fatta e basta, senza tener conto in modo adeguato degli elementi di contesto. Ebbene, è ovvio che la transizione verde, seppure necessaria, va conciliata con la competitività, altrimenti si va poco lontano”.
I dazi sono lo strumento giusto per riequilibrare la bilancia commerciale americana perennemente in deficit?
«I dazi sono uno strumento subottimale perché, se anche riescono nel tempo a riportare qualche posto di lavoro in America, lo fanno al prezzo di ridurre il valore creato. Potrebbero essere più efficaci politiche di incentivo alle multinazionali per rimpatriare la produzione, magari sussidiandone la spesa in Ricerca & Sviluppo e favorendone le conseguenti innovazioni, in quanto a lungo andare solo le innovazioni garantiscono la competitività, ampliando le opportunità di export”.
Cosa si aspetta accadrà nei prossimi 90 giorni di tregua sui dazi?
«Tre mesi passano alla svelta. Si tratta di una finestra di opportunità di cui l’amministrazione Trump dovrebbe approfittare per ricostruire un clima di fiducia e di rispetto reciproco con gli alleati occidentali. L’obiettivo di contenere l’espansionismo cinese può accomunare gli interessi di tutti i Paesi che tradizionalmente si sono considerati alleati dell’America e anche l’India, forse il Brasile. Se saprà accettare una tregua e un compromesso ragionevole fermando la sua guerra di invasione in Ucraina, nel tempo, la stessa Russia potrebbe riscoprire che i suoi interessi di lungo periodo collimano più con quelli occidentali che con quelli cinesi. Ma Trump deve rispettare la dignità degli alleati”.
Professore lei è molto attento anche a ciò che succede nel mondo cattolico. In America il cattolicesimo sta conoscendo un momento di inaspettata crescita?
«Negli Usa, tra il 2014 e il 2023, mentre la percentuale di cristiani si riduceva dal 70% al 62% quella dei cattolici è rimasta stabile al 20%. Inoltre, dopo il calo nel periodo del Covid, la percentuale di cattolici che vanno regolarmente a messa almeno una volta a settimana è tornata quasi al 30%, così come dieci anni prima. Quindi, il cattolicesimo è resiliente negli Stati Uniti sia nei numeri che nella qualità della frequenza delle celebrazioni eucaristiche. Molti dei 32 milioni di pellegrini attesi a Roma per il Giubileo in corso verranno dagli Usa. La condivisione dei valori cattolici è un altro punto su cui si cementano le relazioni tra Italia e Stati Uniti”.
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