Domani, 14 aprile 2025
La crisi dell’ordine liberale Cosa c’è dietro il ritorno dei dazi
O ltre al caos che stanno provocando, i dazi (messi, tolti o solo sospesi) cancellano la guerra in Ucraina dai media. C’è una nuova urgenza: «Il nemico è uno solo: globalizzazione e lavoro povero». È quanto ha detto il vicepresidente Usa J.D. Vance il 18 marzo scorso.Ha aggiunto che restringere il flusso delle persone e delle merci in entrata, mentre al contempo si deregolamenta all’interno, andrà a beneficio di imprenditori e lavoratori assieme, soltanto americani ovviamente. La Borsa la pensa diversamente ma anche in Europa molti sono d’accordo con la tesi di Vance.
Forse solo gli asiatici (i maggiori beneficiari della globalizzazione) sono contrari e nemmeno tutti. Pechino ha deciso di dare battaglia ma nessuno può prevedere come andrà a finire perché è evidente che nemmeno i leader sanno quanto l’economia sia ormai interconnessa. I dazi fanno effetto boomerang su chi li mette.
Laissez faire o laissez passer
Di per sé assistiamo alla solita vecchia diatriba tra chi è per e chi è contro la totale liberalizzazione del commercio, tra il laissez faire e laissez passer del XVIII secolo e chi vuole più equilibrio e regole. La discussione va avanti da almeno tre secoli con il pendolo che oscilla da una parte all’altra.
Lo stesso Adam Smith era favorevole a un mercato regolamentato: solo così la «mano invisibile» poteva sprigionare le migliori energie. Ma non esiste un sistema di «concorrenza perfetta» e c’è sempre qualcuno che ha da ridire sulle regole.
Donald Trump e Vance sono l’espressione di chi pensa che l’America abbia perso dinamicità imprenditoriale e spirito di innovazione: gli animal spirit sono volati in Asia. Ciò non deve sorprenderci: lo pensano molti leader europei o occidentali ma anche latinoamericani o africani. Il riflesso autarchico o protezionista è sempre dietro l’angolo.
L’inizio del ciclo
Riavvolgendo il nastro, gli anni Ottanta rappresentano l’inizio del ciclo: l’America si ritrova invecchiata industrialmente e tecnologicamente rispetto al Giappone, alle tigri asiatiche e, in parte, all’Europa. A quell’epoca c’erano gli «asian values» che parevano voler conquistare il mondo. Fu quella spinta a far diventare la Toyota la prima casa automobilistica globale.
Si discuteva di modello giapponese, di circoli di qualità e altre innovazioni che definivano l’operaio metalmeccanico nipponico il migliore del mondo. Allora come oggi circolavano vignette sull’operaio Usa obeso e pigro.
Fu il momento in cui l’Europa inventò il Gsm, la Francia il Concorde e il Minitel, il primo sistema di collegamento digitale. Per l’Italia, tanto per fare qualche esempio, ci fu l’invenzione di Quaderno della Olivetti, il primo tablet al mondo o il tentativo di dominare la chimica mondiale.
L’America reagì decidendo di passare alla velocità superiore, innestando il turboliberismo privatizzante: attaccò l’industria pubblica europea e asiatica, imponendo la privatizzazione (cioè il suo sistema) a tutti. Nel 1983, all’epoca di Ronald Reagan, fu inventato il termine “globalizzazione” e lanciata la propaganda anti-statalista. Per scardinare il vantaggio dei concorrenti, gli Usa puntarono sul loro gigantesco mercato interno e sull’abbattimento delle tariffe, l’esatto opposto di oggi. Scommisero anche sulle nuove tecnologie.
L’idea era che un mercato globale li avrebbe favoriti e così è stato in un primo momento: il recupero del gigante americano fu travolgente, complici anche le tecnologie militari (guerre stellari ecc.).
L’intenzione non era solo di contrastare l’Urss ma di tornare al primo posto in termini tecnologici e di efficienza produttiva. Tuttavia non avevano previsto che l’Asia sarebbe entrata nella globalizzazione con una rapidità inattesa, scippando agli Usa molti primati, almeno dagli anni Duemila in poi.
Capovolgimento di fronte
Ora il pendolo torna nell’altro senso: impaurita Washington si rinchiude, come aveva fatto già altre volte nel corso del XIX secolo. Statalismo puro, diremmo in Italia, ma fatto coi privati. Dal momento che i cicli storici ed economici sono rapidi, potremo vedere presto un altro capovolgimento, come si vede dall’incertezza che domina a Washington sui dazi.
Ma c’è un portato storico-culturale che non cambierà: il liberismo ormai gira a vuoto e con esso i liberali hanno perso la bussola e i valori. Siamo dentro una crisi dell’ordine liberale o liberal-democratico e la polarizzazione delle politiche nazionali ha mandato in stallo il sistema.
È stato il turboliberismo e la sua cultura ipercompetitiva (in definitiva contraria alle regole) a provocare tale fuori gioco? Molti lo pensano, tra cui Trump e Vance. Tuttavia c’è da essere piuttosto preoccupati per la tenuta democratica dell’occidente: molti leader stanno maturando un’idea illiberale della democrazia.
Deriva illiberale
Come si è giunti a questo? Il motore della prosperità si è imballato andando fuori giri. Gli Usa sentono di aver perso manifattura e spirito imprenditoriale; i cinesi di aver prodotto troppo e di non aver più sbocchi di mercato (vedono crescere la disoccupazione per la prima volta in 80 anni: pensate lo choc!); la Russia di aver mancato tutti i treni innovativi (è una potenza anni Ottanta e reagisce con vecchi riflessi come la guerra che voleva fare decenni fa).
In Europa i social-liberali sono in crisi ideologica: Tony Blair e Gerhard Schröder li hanno condotti verso i liberisti o addirittura i conservatori (si pensi all’immigrazione). A sinistra non c’è più innovazione politica, come si vede dentro S&D che insegue il Ppe senza contribuire in nulla di originale alla riflessione sull’Europa di domani.
I popolari subiscono una sorte simile, tanto che la parte tedesca (che di fatto comanda il Ppe) assomiglia sempre di più alla destra conservatrice. Ai liberali europei di Renew pare resti solo la battaglia della guerra, vera ossessione. In tale contesto la destra (sovranista, populista, nazionalista) sembra più pragmatica e realista: si oppone all’avventurismo liberale sull’Ucraina o sulle armi, cercando al tempo stesso una mediazione con l’inquietudine americana.
A opporsi come visione alle conseguenze della crisi del liberalismo europeo resta la cultura cattolica di papa Francesco. Il problema è che in Occidente le forze politiche non-liberali (o addirittura anti-liberali) hanno a che fare con istituzioni forgiate dai liberal-democratici. Lo scontro con le regole vigenti è pesante e in alcuni casi (vedi Ungheria) rovinoso. Il rischio autoritario è reale. La crisi occidentale è una crisi del liberalismo a cui va data una risposta, pena la fine della democrazia come l’abbiamo conosciuta dal 1945 a oggi.