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 2025  aprile 16 Mercoledì calendario

Il sassofono lento di Marsalis «Che noia la tecnica dei virtuosi»

Non è facile stare al timone di quella che è considerata la «prima grande famiglia del jazz americano», soprattutto se ci si chiama Branford Marsalis, si è il primogenito di Ellis e si è iniziato a suonare il sassofono proprio sotto la guida del padre, ex marine, pianista e insegnante.Neppure gestire i rapporti con i fratelli, musicisti anch’essi, è stato uno scherzo: soprattutto con Wynton, celebre trombettista, che tolse per anni la parola a Branford quando decise nel 1985 di entrare nella band di Sting per quello che fu l’esordio solista del frontman dei Police, The Dream of the Blue Turtles. Già, perché i Marsalis hanno fatto del rigore un fil rouge della loro stirpe: musicisti jazz ma anche studiosi ed esecutori della tradizione classica.
Tutt’oggi Branford è regolarmente richiesto come solista in orchestre di mezzo mondo sui repertori di Debussy, John Williams, Mahler. Ma il nostro frequenta da tempi non sospetti i più disparati ambienti: dalle ospitate nei leggendari live dei Grateful Dead alle commistioni con l’hip hop old school dei Public Enemy passando per Miles Davis e Dizzy Gillespie.
Oggi, mentre il sassofono nel jazz è tornato assoluto protagonista grazie a una sfornata di giovanissimi talenti, da Kamasi Washington agli inglesi Nubja Garcia e Shabaka Hutchings, Marsalis decide di andare contro corrente e risuonare un disco di 50 anni fa, Belonging dello stellare quartetto di Keith Jarrett.
Il sax, suo compagno di vita, è tornato a fare la parte del leone nel jazz contemporaneo. D’altronde ha un potere enorme anche su chi lo suona; come diceva Charlie Parker, «non suonare il sassofono, lascia che sia lui a suonare te».
Credo che Parker st es se cercando di dire la stessa cosa che mi spiegò alla prima lezione il mio insegnante molti anni fa: il sassofono è uno strumento ben progettato, e se tu ti metti d’intralcio e non lo lasci esprimere in tutte le sue potenzialità lo suonerai male. Devi imparare a non intrometterti e portare avanti una continua negoziazione tra te e lo strumento.
Lei quanto si è “intromesso” tradendo l’album originale di Jarrett e lo stile del sassofonista originario di quel disco, il norvegese Jan Garbarek?
C’è un’emozione che accompagna l’ascolto di un ottimo disco come quello. Ovviamente non ho cercato di imitare il suo suono, ma di usare la sua tonalità per esprimere le mie personali emozioni provate ascoltando il disco. Un album che ho amato tantissimo. Ha 50 anni ma suona attuale. Penso che nella musica, o nella storia dell’arte, ciò che rende grande è la sua capacità di trascendere il secolo o il decennio in cui è stata creata. Quando ascolto Mozart, Beethoven o Vivaldi, non sembrano affatto vecchi, e anche nella musica popolare è lo stesso. Quando ho convinto i miei figli ad ascoltare un disco dei Beatles, la cosa che li ha letteralmente sconvolti è che quel disco non suonava affatto come se avesse 60 anni. È proprio questo che lo rende grande: il suono sempre contemporaneo.
A proposito di evergreen: è vero che da ragazzo era ossessionato da John Coltrane e voleva suonare come lui?
Stavo semplicemente imparando. Non sapevo ancora bene la mia strada quando entrai giovanissimo nella band di Art Blakey, e quindi ascoltavo molti sassofonisti: Johnny Hodges, Coleman Hawkins, Sonny Rollins e John Coltrane. Riuscire a riprodurre il suono di ognuno di questi musicisti richiedeva applicazione e disciplina.
Lei ha un’etichetta discografica, la Marsalis Music, in cui produce nuovi musicisti jazz. Cosa c’è ancora da scoprire nel jazz e in che direzione sta andando?
La direzione è irrilevante, è l’abilità delle persone che suonano il jazz la cosa più importante. L’ultimo grande cambiamento nel jazz è stato dopo la morte di Charlie Parker, nel 1955, quando improvvisamente l’assolo è diventato la parte più importante di una canzone. Da allora tutti parlano della fantastica tecnica di Charlie Parker e di quanto suona veloce. Invece io sono rimasto più colpito da quanto riuscisse a suonare lentamente e dal suono che era in grado di creare con il suo strumento. Oggi sento molti musicisti che sanno suonare gli stessi riff che suonava Charlie Parker ma non suonano bene quanto suonava lui perché sono più interessati alla tecnica, e io non sento alcuna emozione da quel modo di suonare.
Fino al 1985 lei è stato membro chiave del quintetto di suo fratello Wynton, poi, quando lei ha deciso di seguire Sting nella registrazione di The Dream of the Blue Turtles, avete litigato. Quel disco, che compie 40 anni, è stato il primo ibrido di successo tra pop e jazz grazie anche a una band stratosferica: lei, Derryl Jones al basso, Kenny Kirkland alle tastiere, Omar Hakim alla batteria. Cosa ricorda di quelle registrazioni e di quegli anni con Sting?
Fu una grande esperienza anche se ero ancora un ragazzino e come tutti i ventenni tendevo a vivere nel presente, tutto allora mi accadeva con naturalezza e semplicemente me lo godevo. È ovvio che mi rendevo conto che stavo suonando in una band con cinque dei musicisti più famosi del mondo in quel momento. Ma lui, Sting, era... era un tipo molto tranquillo, si comportava non come fosse ciò che era, cioè uno dei più famosi cantanti al mondo. Lui è un grande songwriter, un grande bassista, sicuramente un bassista sottovalutato, e noi abbiamo cercato di dare un’interpretazione, un suono diverso alla sua musica. Una volta mi ha detto: «Avrei potuto avere altri strumentisti in studio, gente a cui dire tutto quello che devono fare, ma non è ciò che voglio. Voglio che voi facciate quello che vi passa per la testa, a volte non mi piacerà e dirò di no, ma almeno staremo provando delle cose con un approccio diverso». E su questo aveva ragione.
In passato lei ha collaborato con un regista impegnato come Spike Lee, sia per la colonna sonora di Mo’ Better Blues (con un giovane Denzel Washington nei panni di un jazzista a New York) sia su Fa’ la cosa giusta, con l’iconico pezzo dei Public Enemy Fight the Power. Ultimamente l’hip hop più impegnato si è schierato dalla parte di Kamala Harris. Cosa non ha funzionato?
Penso che le cose siano molto complicate perché la maggior parte della gente che vota è poco informata. Succede in ogni paese: le persone votano in base a una sensazione. Ci sono state persone per le quali ciò che Trump diceva ha risuonato emotivamente, mentre ci sono state persone più giovani per le quali il messaggio di Kamala Harris non ha risuonato, e non sono state abbastanza mature da capire che a volte devi solo tapparti il naso e votare per le persone che serviranno meglio i tuoi interessi. In politica funziona che la gente vuole innamorarsi di te e a quel punto farà qualsiasi cosa per te. E così ci siamo trovati in una situazione in cui Trump si è candidato, ha fatto una serie di promesse ad alta voce, e ciò ha mosso la pancia di tanti. Ovviamente io penso: ma di cosa parliamo? Questa è demagogia. Il demagogo arriva, dice che spazzerà via il governo in carica, e le persone che sono in quel momento contro il governo lo votano, non rendendosi conto che saranno anche loro nel suo mirino. Penso agli agricoltori americani: Trump ha da poco cancellato diversi fondi per loro. E all’improvviso quegli stessi agricoltori si sono detti: hey, non credevamo che avrebbe fatto questo proprio a noi. Abbiamo le elezioni di midterm tra due anni, e se gli americani decideranno che questo è il modo giusto per affrontare questo caos mondiale allora ok. Altrimenti, se faranno tornare i democratici di nuovo in maggioranza, allora il discorso sarà molto diverso. Non sono affatto un fan di quello che sta succedendo, ma questa è la strada che i miei connazionali hanno deciso di percorrere. Quindi dobbiamo seguire questa strada.
Suonerà in Italia?
Passeremo questa estate a Roma, una città che amo. Amo l’intero vostro paese, mi piace guidare sulle autostrade, trovare il cartello di una città con un nome che non ho mai sentito, seguire l’insegna per il centro e semplicemente entrare in un ristorante dicendo: «Sono un americano, datemi da mangiare», e loro me lo danno.