il manifesto, 15 aprile 2025
Mario Vargas Llosa, un paziente architetto della parola vissuta
«Imparare a leggere è stata la cosa più importante che mi sia mai successa», ha detto qualche anno fa Mario Vargas Llosa in una delle innumerevoli interviste che hanno costellato la sua vita di scrittore celebre, assurto nell’Olimpo dei Nobel nel 2010 e autore di un’opera che appare davvero sterminata, tra romanzi, saggi critici, pamphlet, opere teatrali e una fitta produzione giornalistica. Carico di riconoscimenti e di onori, se n’è andato a ottantanove anni nella sua casa di Lima (era nato ad Arequipa nel 1936, unico figlio di Dora Llosa ed Ernesto Vargas), che ospitava un’immensa biblioteca messa insieme nel corso di una vita intera.
A LEGGERE, Vargas aveva imparato a cinque anni, circondato dall’amorosa attenzione della famiglia Llosa che aveva accolto lui e la madre dopo l’abbandono paterno, avvenuto prima ancora della nascita di Mario. E la lettura sarebbe diventata il suo principale rifugio quando, a dieci anni, avrebbe appreso che suo padre non era morto, come lui aveva sempre creduto, e che la famiglia si sarebbe riunita e trasferita a Lima, una città sconosciuta e quasi ostile.
Alle prese con un padre rigido e violento, che lo picchiava e lo considerava poco virile proprio a causa della sua passione per i libri, a quattordici anni Vargas era finito in un collegio militare che avrebbe dovuto fare di lui «un vero uomo», e proprio lì aveva cominciato a scrivere, sia pure in segreto. Una carriera di scrittore iniziata nel segno della ribellione e perseguita con ostinazione, insomma, che lo avrebbe portato molto lontano, regalando ai lettori più di un libro straordinario.
Parlare di capolavori non è esagerato, almeno nel caso di La città e i cani (1963) e Conversazione nella cattedrale (1969), mentre La zia Julia e lo scribacchino (1977), Storia di Mayta (1984), Chi ha ucciso Palomino Molero? (1986), Elogio della matrigna (1988) e La festa del caprone (2000) restano nella memoria dei lettori come romanzi straordinari, che emergono tra opere indubbiamente minori (e col passare degli anni, va detto, sempre più stanche) ma sempre sorrette da un eccellente mestiere, da una scrittura impeccabile e da una struttura attentamente studiata.
Perché Vargas non improvvisava mai e progettava i suoi testi come un paziente architetto, posandoli su fondamenta composte in parti uguali da esperienze vissute, da ricerche d’archivi e da riflessioni politiche e rielaborazioni di fatti storici; non a caso rimase allibito quando l’amico Cortázar, passeggiando con lui per Barcellona, gli raccontò che scrivere, per lui, significava sedersi e posare le mani sui tasti dell’Olivetti: le parole fluivano da sole.
Il suo uso impeccabile di uno spagnolo relativamente neutro fioriva di espressioni peruviane, quando il suo giro del mondo letterario lo riportava a luoghi chiave come Lima e Piura, e le sue trame non esitavano a imparentarsi con le forme caratteristiche del melodramma latinoamericano, ossia il feuilleton radiofonico (che fa da spina dorsale a uno dei suoi più celebri romanzi La zia Julia e lo scribacchino) e televisivo, perché, come sostiene uno dei suoi eroi, don Rigoberto, le storie della vita quotidiana sono «più vicine alle telenovele venezuelane, brasiliane, colombiane e messicane che a Cervantes e a Tolstoj».
DIETRO E DENTRO le storie ora drammatiche ora ironiche o apertamente burlesche, ci sono però temi cui Vargas è sempre rimasto fedele: le virtù civilizzatrici della letteratura e dell’arte, l’erotismo, la critica ai pregiudizi razziali e al divario sociale, i conflitti generazionali, l’analisi delle vicende storiche e politiche delle diverse nazioni latinoamericane. Ed è proprio dal versante storico e politico che vediamo emergere l’aperta contraddizione che sembra essere una delle caratteristiche dello scrittore peruviano: nella sua narrativa, compresa la più tarda, non si trova traccia della sfrenata devozione per il neoliberismo che ha connotato le sue idee e opinioni dopo l’adesione giovanile al comunismo.
Feroce critico di Trump e di Pinochet, convinto assertore dei diritti civili e difensore delle minoranze, capace di demolire con lucida precisione, in romanzi come La festa del caprone e Tempi duri (2019), le peggiori dittature dell’America Latina, Vargas era tuttavia un ammiratore di Margaret Thatcher e, per chissà quale misteriosa deriva, aveva addirittura sostenuto la fallita corsa alla presidenza di Keiko Fujimori, figlia del suo antico e disprezzato rivale.
Pur tenendo conto di tutto questo, è soprattutto alla sua opera che dovremmo guardare, ricordando con qualche nostalgia che con lui si chiude un’epoca. Vargas era, infatti, l’ultimo esponente di un gruppo di autori latinoamericani che negli anni sessanta stavano reinventando un modo di raccontare, e che l’Europa aveva da poco scoperto ed etichettato con una sigla, «il Boom», oggi usata con una sfumatura di insofferenza da quanti pensano che abbia generato una cascata di stereotipi duri a morire.
IN QUELL’EPOCA, tuttavia, Boom significava ancora rivoluzione e novità, energia giovane e impegno politico, e tra i suoi frutti ci sarebbero stati ben due premi Nobel. Era, in effetti, avvenuto un miracolo: una proposta estetica di qualità indiscussa, associata a un vasto movimento ideologico, era stata raccolta da un circuito editoriale capace di farla diventare un fenomeno di mercato e di trasformarne gli autori in autentiche star (oltre che in futuri classici e, in alcuni casi, in autentiche icone pop). E miracoli come questi raramente accadono due volte.