Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  aprile 15 Martedì calendario

Se le monache di clausura insegnano il giornalismo

Ho tra le mani un libro che si è rivelato una lieta sorpresa, e la cui lettura ha colmato alcune serate di qualcosa che somiglia persino a dei pensieri profondi, riuscendo a spazzare via il ciarpame della noia accumulata durante giornate intrise di articoli (quasi) tutti uguali, i cui autori poi rivendono i medesimi concetti persino più sgrammaticati nei vari talk show. Il romanzo Le voci di Via del Silenzio di Elvira Serra (Solferino, pagg. 250, euro 18), firma del Corriere della Sera, è qualcosa di più vero della vita, come riesce a essere la letteratura quando è tale, e non riesce più a essere il giornalismo. La cui decadenza precipitosa non è una conseguenza fatale della tecnologia. Non è solo colpa della prevalenza asfissiante dei social invasi dai buzzurri, non c’entra cioè soltanto internet, ma è uno spegnersi della curiosità riguardo a quel che accade sotto i nostri occhi e non riusciamo più a vedere, con la conseguente rinuncia alla ricerca dei segni di umanità che popolano la vita dei nostri simili e qualche volta persino l’interiorità dei gazzettieri. Ci sarebbe tanto da scavare senza bisogno di fare gli archeologi in Mesopotamia, basterebbe salire sui tram togliendo gli occhi dai cellulari.
Elvira non è così. Lo ha dimostrato negli anni anche prima di questo romanzo, ma, in queste pagine di fantasia con radici nella sua (e nostra, di tutti noi umani) esistenza, supera sé stessa. Ho detto che è stata una «lieta sorpresa». Sorpresa però mica tanto. Avevo già imparato a privilegiare, nella massa di carta informe, la lettura delle sue interviste e delle sue cronache in quel settore dei quotidiani che nel nostro mestiere si chiama «costume». I direttori e i vicedirettori indirizzano a occuparsene le penne che si presume siano brillanti, inclini alla leggerezza mescolata al gossip. Di solito salta fuori la fiera delle lacrimucce zuccherine e delle ironie da macchinetta dei cattivi caffè. Un manierismo dove si cita il proprio taccuino invece delle facce. Elvira invece no. Ha un altro sguardo.
La storia che racconta l’ha pensata e sviluppata con una fantasia da allodola dopo aver passato alcuni giorni in un monastero benedettino di clausura a contatto con le monache e soprattutto con la badessa. Il convento è quello sorto nella seconda metà del secolo scorso sull’Isola di San Giulio, un fazzoletto di terra fatto di poche ville e giardini che emerge dal Lago d’Orta, tra Piemonte e Lombardia, a un’ora di macchina da Milano. Spedita lì da Aldo Cazzullo ha raccontato per il Corriere che cosa spinge ragazze e donne già realizzate nella professione a chiudersi nel silenzio, domandando loro se non fosse una maniera egoistica per tirarsi fuori dai guai della vita comune degli altri esseri umani.
Elvira lì ha incontrato il silenzio, che non è il vuoto delle parole, ma uno strano mondo traboccante umanità e pienezza. Non è però un libro di meditazioni spirituali – di cui pure è intessuto senza alcuna pretesa di fare la predica -: c’è una trama che non mi sogno di svelare, e che somiglia alla soluzione di un giallo. C’è Luca Martinelli, un enfant prodige del giornalismo radiofonico, che rifà quel che aveva fatto Elvira per il Corriere: interrogare il silenzio, farlo parlare, partendo dal presupposto implicito che queste brave signore avrebbero speso meglio il loro amore per Gesù aiutando i poveri come Madre Teresa, o curando i bambini nelle periferie degradate di Nairobi o di Napoli. Aveva un presentimento però che tutto non fosse così ovvio e banale. Non è il rifugio in cui nascondersi, ma un altro modo di aprirsi all’infinito, non in astratto, ma nel concreto dolore del mondo. Lo scopre incontrando la badessa Madre Maria Benedetta, che un tempo era un’inviata proprio del quotidiano di via Solferino, Giulia Belgioioso, chiamata da tutti Giulietta. Improvvisamente si era dimessa, ed era approdata lì venticinque anni prima. Perché?
Non ve lo racconto. Vi dico che se vi siete fatta un’idea delle suore-zitelle vi sbagliate alla grande. Io ritengo che queste pagine siano anche – senza volerlo – una scuola di giornalismo, unica sua possibilità di sopravvivenza dignitosa di questa professione (Elvira dice «vocazione-missione»). Sono un’eccezione nel panorama delle collane di narrativa ormai assai praticate dai giornalisti (altra eccezione, non a caso femminile, Lucia Esposito con Sorelle spaiate, Guanda).
Sono propenso a diffidare, in tempi grami per i quotidiani, di romanzi scritti da giornalisti. Ne intuisco lo scopo prima di accingermi alla lettura, che poi si rivela subito dalla presunzione grondante dalle prime tre pagine. Siamo tutti portati a sopravvalutarci. Non mi escludo dal novero. Ma ho evitato con cura di esibirmi nel ramo letterario. Anche perché quando intrapresi il mestiere di cronista c’era da correre davvero. Evito qui di celebrare i miei modesti pezzi scritti sul tamburo senza la tentazione di sentirmi un Dino Buzzati. Altri tempi. Sono bravi ragazzi quelli di oggi, costretti a mettere in fila notizie insipide, mentre il loro animo avventuroso aspirerebbe all’Afghanistan, dove «la vita vera si mescola con la maestà della morte» e via con altre stronzate simili. Si ritengono per il solito molto meglio di quel che li considerano i capi, i quali in effetti invece di spedirli a crepare stupidamente ma eroicamente a Gaza, li legano al computer onde mettere insieme notizie di terza mano. Basterebbe applicare alcune regole che trovo nel romanzo della Serra. Ne indico due: «Ogni personaggio resta una persona. È la lezione che mi sono portata dietro negli anni». «Non sappiamo mai davvero come si sentono gli altri. Già solo per questo dovremmo sospendere ogni giudizio».