Avvenire, 16 aprile 2025
Bruno Frank, un umanista nell’Europa davanti a Hitler
Il tedesco Bruno Frank, ebreo assimilato e tra i primi scrittori a lasciare la Germania nel 1933 – sbagliò tempistica per l’uscita della sua Politische Novelle? In quel 1928 erano apparsi in Germania capolavori come L’Opera da tre soldi e Niente di nuovo sul fronte occidentale, all’estero l’Orlando di Virginia Woolf e L’amante di Lady Chatterley. Concorrenza imbattibile, si dirà. Eppure Frank in realtà azzeccò in pieno il momento, dato che il suo romanzo breve divenne un caso letterario. Infatti molti interpretarono il contenuto politico, insolito per una novella, come racconto allegorico dell’avvicinamento tra Francia e Germania che si concretizzava proprio quell’anno nel Patto Briand-Kellog, frutto del Trattato di Locarno che aveva riammesso la Germania nella Società delle Nazioni. In corso c’erano, poi, il dibattito sulla smilitarizzazione della Renania e quello sul paneuropeismo, aperto dal conte Richard von Coudenhove-Kalergi. Della genesi e portata dello scritto di Frank e della querelle che generò dà conto Enrico Arosio nella postfazione alla prima edizione italiana della Novella politica, da lui stesso curata e tradotta per Keller (pagine 160, euro 15,00).
Se si eccettuano l’edizione dei romanzi Cervantes, uscito nel 1936 da Bietti per la traduzione di Lavinia Mazzucchetti (riproposto nel 2016 da Castelvecchi) e La figlia (Mondadori, 1952) questo autore è rimasto sinora da noi pressoché sconosciuto. A testimoniarne l’importanza appare ora in prima edizione italiana anche uno dei due romanzi brevi di carattere storico, da lui ambientati alla corte di Federico II di Prussia: Giornate del re, curato e tradotto da Massimo Ferraris (Castelvecchi, pagine 128, euro 16,50). Buon autore, ma non ancora di successo, in sua difesa dagli attacchi – che gli vennero sia da destra che da sinistra. Frank vide intervenire nientedimeno che Thomas Mann, suo amico a vicino di casa a Monaco (lo sarà anche in esilio, nel sud della Francia e nella californiana Pacific Palisades). L’autore dei Buddenbrook ai tempi ancora restio a immischiarsi nei fatti politici intervenne su una rivista, cercando di rispondere alla domanda: perché tale polemica? Il brano citato da Arosio nelle prefazione merita di essere riportato integralmente: «Perché il tema trattato è grande e di bruciante attualità, preoccupa milioni di persone e al tempo stesso è una questione che sta a cuore a quest’umanista svevo, il cui amore più spirituale si chiama Europa, ed è rivolto all’onore e alla dignità di un continente minacciato, sempre più confuso nei propri istinti. Il tema è il riavvicinamento tra tedeschi e francesi, è questo il problema dalla cui risoluzione dipendono la sicurezza economica, il consolidamento, il ripristino, la salvaguardia dell’Europa». Manns spiegò poi dettaglietemente il carattere di finzione dello scritto.
Questo non vuol dire che. senza voler fare paragoni anacronistici – il romanzo non sia intesuro di questioni storiche ancora attuali, che echeggiano ad esempio in un dialogo tra i due personaggi principali del racconto. Si tratta del francese Achille Dorval – in cui è chiaramente ritratto il ministro degli Esteri transalpino Aristide Briand, socialista, pacifista ed europeista – e del collega in pectore tedesco Ferdinand Carmer, personaggio interamente di fantasia, in cui però i contemporanei videro rispecchiato il capo della diplomazia di Weimar Gustav Stresemann. A Carmer, che evoca una “battaglia di Salamina” in favore dei valori europei, il francese replica: «Ecco, questo è il modo in cui io amo fare politica. I più parlano sempre e unicamente di dazi doganali e trasferimenti di valuta». Il bonario e diplomatico francese – come altri personaggi minori – appare comunque più piatto. Complessa e vivida, invece, è la figura di Carmer. È un prussiano. ex magistrato proveniente da una famiglia composta da giuristi e politici guglielmini, ed è un reduce della guerra (come Frank), di cui ha visto gli orrori. È pure (e in questo rispecchia il suo creatore) un acuto osservatore. In vacanza in Italia, a Ravello, assiste con disgusto a un’adunata del tronfio fascismo imperante che sta per contagiare il Continente. A Cannes vede esibirsi una ballerina, Becky Floyd, che incarna Josephine Baker, l’artista afroamericana attiva nella resistenza francese. È attratto da culture e paesaggi diversi dalla sua pianeggiate e monotona Prussia. Alla fine, nei vicoli della greca Marsiglia, tornano alla mente del diplomatico tedesco versi e paesaggi del Reno cantati dallo svevo Hölderlin con un occhio alla classicità. Negli anfratti di vie della città portuale, però, l’idillio si perderà. Tragicamente.
Al tramonto è anche la vita del monarca prussiano Federico II, uno dei pochi a cui è stato attribuito il titolo “il Grande” ancora in vita. Frank, nato a Stoccarda nel 1887 in una famiglia ebrea assimilata, aveva senz’altro un’ammirazione per questo sovrano illuminato e tollerante, al quale ha dedicato oltre a quest’opera del 1924 – composta di una trittico di racconti – anche il romanzo Trenck (1926) e un’antologia di scritti. Ce lo presenta però non al momento dell’apogeo, bensì del declino. Nel primo racconto “Il gran cancelliere” il re di Prussia è alle prese con la vicenda di un mugnaio, Arnold (sarebbe quello della frase “ci sarà pure un giudice a Berlino” attribuita dalla leggenda a un mugnaio di Potsdam). In “La cicatrice” lo si vede rivolgere un discorso ai suoi amati levrieri. Passione per i cani che anche Frank coltivava, tanto che anche il terzo racconto “Alcmena” è incentrato sul rapporto di affetto che il sovrano aveva con i quadrupedi. L’approccio dello scrittore, spiega Ferraris nella prefazione, è quello di «calare la figura del re prussiano nella vita quotidiana, tratteggiarlo come persona con i suoi limiti, difetti, incoerenze». Contraddizioni che, grazie alla maestria dello scrittore svevo, «appaiono in un certo qual modo sublimate alla luce della dedizione assoluta allo Stato e ai sudditi».
Di fronte a un potere assoluto, ma spietato, Frank se ne sarebbe andato dalla Germania su due piedi, il giorno dopo l’incendio del Reichstag, avvenuto il 27 febbraio del 1933. Giunto alla fine in America, lavorò a Broadway e come sceneggiatore per la MGM. Quando morì – a Beverly Hills nel 1945 – il regista William Dieterle scrisse una commemorazione dal titolo significativo: “Bruno Frank: l’europeo”. In Olanda negli anni Trenta lo scrittore aveva cercato di tenere vivi i valori dell’umanesimo europeo, animando il circolo di scrittori contro Hitler intorno alla casa editrice Querido. Gruppo del quale faceva parte Klaus Mann, forse il più lucido tra gli intellettuali antinazisti. Klaus era molto affezionato a Frank, che da bambino considerava «uno zio generoso e gioviale». Mann jr in esilio si cimentò anche con la lingua inglese, come testimonia Speed, testo che dà il titolo alla raccolta dei racconti dell’esilio, composti tra il 1933 e il 1943, pubblicata sempre da Castelvecchi, nell’ambito della pubblicazione di tutte le sue opere, per la cura dello stesso Ferraris (pagine 216, euro 22,00). Sono 14 prose, di cui solo una già apparsa in Italia, La finestra con le sbarre incentrata su un altro re, stavolta lo sfortunato Ludwig di Baviera morto suicida proprio come l’autore di Mephisto. Alcuni dei testi furono pubblicati quando questi era in vita, altri postumi per la prima volta in traduzione tedesca nel 1990. In essi ci sono le tematiche tipiche di Mann: l’omosessualità, le droghe, la decadenza e lo spaesamento, Quello che lo porterà a togliersi la vita a Cannes nel 1949.