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 2025  aprile 15 Martedì calendario

Alessandro Giuli: «Musk tra gigantismo e infantilismo, Trump un genio americano. Crozza? La sua imitazione mi rende più giovane»

Ministro Giuli, un anno fa, da presidente del Maxxi, disse al Corriere che se fosse stato statunitense non avrebbe votato per Biden ma di sicuro neanche per Trump. Pensa che la storia le abbia dato ragione?
«Oggi il gioco del “se” lo farei pensando di essere uno dell’opposizione».
Quindi?
«Se fossi all’opposizione del governo Meloni, invece di sbraitare penserei che l’attuale classe dirigente americana è l’unica che abbiamo a disposizione. E, di conseguenza, l’unica con cui siamo obbligati a trattare».
Trattare singolarmente come nazione, come Italia? Oppure l’Europa è imprescindibile?
«È imprescindibile ragionare in termini di grandi spazi proprio perché il mondo è conteso da grandi forze imperiali, quando non imperialiste. Posso dirle come dovrebbe essere il nostro futuro, secondo me?».
Certo.
«Europa e Africa, Unione europea e Unione africana insieme, incasellate in un unico blocco. L’Italia sarebbe privilegiata dall’essere esattamente in mezzo».
Lo diceva anche Bettino Craxi.
«E aveva ragione. Il piano Mattei non è lì per caso».
Mancano però gli interlocutori africani. Impossibile anche solo capire con chi parlare.
«Oggi siamo l’unico Paese del mondo in grado di trattare, a livello di governo e anche di intelligence, con tutte le forze in campo. Anche con quelle che spesso combattono tra di loro. Lo sa che cosa ho detto ai miei colleghi durante l’ultimo Eurogruppo della cultura?».
Che cosa?
«Due cose. La prima, visto che stavamo a un pranzo con un menu brussellese un po’ pacchiano, è che quella era la mensa dei poveri, visto che a livello comunitario l’Unione stanzia un budget quadriennale più basso del già basso budget annuale del mio ministero; la seconda, che mancava una sedia: quella del rappresentante dell’Unione africana. Dovrebbe esserci sempre, quella ventottesima sedia, quando ci riuniamo noi ventisette».
Lei è il ministro della Cultura di un governo con dentro nazionalisti e sovranisti. Il suo rapporto con i pari grado socialisti?
«Quando si tratta di cultura a volte neanche ci interessa sapere la provenienza politica e partitica dei colleghi. Una delle persone con cui vado più d’accordo è la ministra della Cultura tedesca, Claudia Roth, socialdemocratica. Le cooperazioni internazionali che riguardano l’arte, la musica, il cinema, lo spettacolo, la lotta alla pirateria e al traffico illecito dei beni culturali superano gli steccati politici e ideologici».
Scusi ma il tema dell’egemonia culturale della destra, che scandì il ritmo del battesimo del governo Meloni, che fine ha fatto?
«Le racconto questa cosa. Di recente ho incontrato l’ambasciatore cinese in Italia, era contentissimo quando gli ho regalato il mio libro sul fondatore del Partito comunista italiano, Gramsci è vivo. Alla fine, abbiamo chiuso la nostra conversazione citando Lao-Tse e il Tao te ching...».
E quindi?
«Se un confuciano come lui e uno di inclinazioni taoiste possono discutere di cultura, è il segno che la cultura non vive soltanto di egemonie. Tra l’altro gli ho proposto una cosa, che a lui è piaciuta: adottiamo insieme la candidatura di un sito Unesco in uno Stato africano».
Trump dichiara guerra alla Cina. Voi no?
«Cina e Italia sono repubbliche giovani con storie millenarie alle spalle. Sulla scia del percorso avviato con la visita a Pechino del presidente Mattarella e di Giorgia Meloni, ci saranno altri scambi, anche qui da noi spero».
Un personaggio come Musk l’affascina o le fa paura?
«Mi affascina perché rappresenta l’elemento caratteristico, ma ancora contemporaneo, della vecchia America: quel mix di gigantismo e infantilismo con cui una volta gli americani conquistavano il West e adesso puntano allo spazio. Mi riferisco a quella punta di infantilismo che spesso li fa uscire dai canoni del galateo diplomatico, che li fa esondare nelle politiche degli altri Paesi senza spesso neanche capire che materiale elettorale maneggiano. Anche qui, in fondo, sono dei geni; e come dicevo per Trump all’inizio, sono gli unici geni americani che abbiamo a disposizione in questo momento».
Quando è arrivato al ministero della Cultura al posto di Sangiuliano, un pezzo di Fratelli d’Italia le ha fatto la guerra. Ora è passata?
«No, nessuna guerra dal partito, semmai da qualche ultrà... Ho le spalle larghe fisicamente, intellettualmente e culturalmente. E soprattutto un petto che è stato messo al servizio della causa della destra prima ancora che nascesse Fratelli d’Italia».
S’è iscritto al partito?
«Tessera platinum in arrivo... da ritardatario. In ogni caso, di quel partito potrei essere persino la tessera numero due, dopo Giorgia Meloni, o la tre, la quattro, al massimo la cinque. Conosco la nomenclatura del partito per averla raccontata e a volte anche criticata, da giornalista e opinionista. E sono un ministro politico, non un tecnico. E comunque non voglio rendite, non fondo correnti, sono nipote di un provinciale inurbato che non ha città o collegi da sfamare; e penso che tutto questo possa aver tranquillizzato chi eventualmente non era tranquillo».
Un giornalista che fa il ministro non perde la sua libertà?
«Per riuscire a comandare bene bisogna desiderare di avere un buon capo. Ed è quello che ho detto a Giorgia Meloni quando mi ha chiamato per chiedermi se fossi pronto a diventare ministro della Cultura. “Io sono pronto. Ma tu sei pronta a essere il mio capo?”».
Si aspettava la chiamata durante il caso che ha travolto Gennaro Sangiuliano?
«Leggevo che sui giornali si faceva il mio nome ma nessuno mi aveva cercato. Poi, a un certo punto, nell’unico giorno della mia presidenza che mi ero presentato a lavoro al Maxxi senza giacca e cravatta, mi arriva un messaggio di Giorgia. Testo: “Puoi parlare?”. Dopo sono corso a casa a cambiarmi».
Lei tornerà al giornalismo oppure continuerà con la politica?
«Nulla di quello che ho fatto nella vita era nei miei programmi: non fare il giornalista, né il presidente del Maxxi, figuriamoci il ministro della Cultura. Marco Aurelio diceva: “Prendi senza illusioni, lascia senza difficoltà”».
La citazione è contenuta anche nel suo libro in uscita per Baldini+Castoldi, «Antico presente. Viaggio nel sacro vivente», una raccolta di articoli del suo periodo al Foglio che esce con una prefazione di Andrea Carandini.
«Che ringrazio. Anche perché è il più grande archeologo vivente, viene da una tradizione culturale che non è la mia e non era affatto scontato che accettasse di fare la prefazione a un mio libro».
Non sarà troppo fuori tempo, soprattutto in questa fase, un libro del genere?
«Nel libro racconto tra le altre cose del destino di Cesare, inquadrato nel grande scontro tra ottimati e popolari. Lui aveva scelto di stare dalla parte di questi ultimi, che gli ottimati dell’epoca chiamavano populisti».
È finita malissimo.
«Cesare ha cercato quella fine, che è uno snodo fondamentale nella lotta tra gli ottimati e i popolari. Ha scelto di stare dalla loro parte e al loro servizio, ha distribuito terre ai veterani e agli alleati, s’è messo contro gli inquilini del privilegio dell’epoca. Credo che questa lezione sia molto molto attuale».
Giuli, il suo eloquio, in particolar modo quei rimandi all’apocalittismo difensivo e all’infosfera durante la sua prima audizione in Parlamento, le hanno consegnato una dose abbondante di critiche e sfottò. Se l’è presa?
«Ma figuriamoci: sono stato io, di recente, il primo a esserci tornato su. All’ultima audizione in commissione Bicamerale per le Periferie l’ho detto in premessa, “oggi niente infosfera”».
Se l’è presa o no?
«I meme del web, il cazzeggio del cittadino che con i social ha annullato la distanza dal ministro, ci stanno tutti. Ci sta meno l’aver preso un minuto e mezzo di un discorso durato un’ora per trasformarlo in uno strumento di battaglia politica o, peggio ancora, di dileggio personale. Ma ripeto, fa parte delle regole del gioco».
Le era piaciuta l’imitazione di Crozza?
«Mi era piaciuta tantissimo. Perché, oltre a ringiovanirmi, mi dava un’idea aggraziata quasi fino all’effeminatezza».
Un anno fa lei disse che, per governare a lungo, Giorgia Meloni avrebbe dovuto liberarsi della minoranza fascistissima di Fratelli d’Italia e coltivare il resto.
«Un anno dopo direi che non c’era forse neanche bisogno di quel suggerimento. Alla sollecitazione di allora fa riscontro che oggi reggiamo la maggioranza di Ursula von der Leyen e che in Europa anche le nostre proposte più audaci sull’immigrazione, come i centri in Albania, sono guardate con curiosità. Dopodiché vedremo come andrà a finire. Il Fato sta sempre lì, nel grembo di Giove».