La Stampa, 15 aprile 2025
Intervista a Paola Del Din
Noi c’eravamo dimenticati di lei. Ma non Re Carlo III d’Inghilterra: «So che in questo giorno stiamo tutti pensando a Paola, che ora ha 101 anni. Rendiamo omaggio al suo coraggio».
Paola Del Din, nata a Pieve di Cadore nel 1923, partigiana della Brigata Osoppo e Medaglia d’Oro al Valor Militare. Si era appena laureata in Lettere all’università di Padova, quando decise di prendere parte alla Resistenza con il fratello Renato. Ma il fratello venne ucciso a Tolmezzo, pochi mesi dopo. Ecco l’origine del nome di battaglia: «Renata». Staffetta partigiana. Raggiunse gli Alleati a Firenze per consegnare documenti strategici, lì chiese di poter frequentare un corso per paracadutisti. Perché paracadutarsi era il modo più veloce per tornare nella sua terra ancora occupata dai nazifascisti. Fu addestrata dal Soe, lo Special Operations Executive britannico. Era la prima donna paracadutista italiana a fare un lancio in guerra. «Missione Bigelow», così si chiamava quel volo. Ecco perché gli inglesi si ricordano di lei.
Signora Del Din, qual è il ricordo più indelebile della partigiana Renata?
«Veramente noi ci sentivamo e ci chiamavamo Patrioti, titolo, secondo me, più nobile di Partigiani. Il Patriota combatte per tutti, il Partigiano solo per la sua parte».
Quando decise, esattamente, di prendere parte alla Resistenza?
«L’8 settembre 1943, dopo il comunicato radio di Badoglio».
Era il 9 aprile 1945 quando fu aperto sotto ai suoi piedi il portellone dell’aereo. Di quel primo lancio cosa ricorda?
«Finalmente riuscivo a tornare in Friuli, dove ancora si combatteva e si combatterà fino a maggio inoltrato e dove mi auguravo che ci fosse, ancora viva, nostra madre. E lo era, seppure dopo essere stata messa in prigione dai tedeschi come ostaggio per noi figli».
Ha ancora memoria del dolore di quando si fratturò la caviglia all’atterraggio?
«Veramente al momento non mi ero accorta del male alla caviglia, il dolore al torace era stato fortissimo, come un’esplosione interna. Colpa mia: mi ero dimenticata di levarmi i guanti di lana e le corde del paracadute mi scivolavano tra le mani. Però non potevo fermarmi».
Lei fu addestrata dalle forze britanniche. Può raccontarci un aneddoto di quella fase della sua vita?
«La torre che serviva per prova di lancio era collegata, con una lunga corda sulla quale scorreva una carrucola, a un grosso albero: bisognava lasciarsi cadere al momento giusto – ma proprio in quell’istante preciso – per evitare l’albero».
Sapeva che re Carlo III d’Inghilterra l’avrebbe ricordata nel suo intervento alle Camere riunite come emblema della guerra di Liberazione?
«Assolutamente no, mi ha sorpreso e emozionato».
Che effetto le ha fatto quel riconoscimento?
«Ho pensato che, dato che io sono ancora viva, servisse a dare maggior riconoscimento al sacrifici vissuti da tanti».
Dopo la guerra, lei si è dedicata all’insegnamento: cosa ha imparato fra gli studenti?
«Che bisogna avere il coraggio e la forza di guidarli per fare bene e per prepararsi anche alla vita».
Oggi molti ragazzi e ragazze sono smarriti. Cosa pensa di questo presente di nuovo in guerra?
«I giovani sono molto smarriti perché sono troppo ridotti al solo materiale, non hanno ideali che li sorreggano e vogliono avere tutti i comodi. Ma è compito dei genitori o di chi li guida di insegnare loro che purtroppo le guerre possono sempre esserci tra gli Stati come nelle società».
Qualcuno dice che non esistono «guerre giuste». Ma la guerra partigiana contro il nazifascismo lo è stata. Cosa pensa di quello che sta succedendo in Ucraina?
«Un orrore!».
Che fare?
«Io mi ricordo che quando ero ragazzina i capi di Stato andavano a discutere con Hitler, cercavano di trattare e lui diceva che quell’ennesima cosa abominevole sarebbe stata l’ultima e poi sarebbe andato tutto a posto. Ma intanto continuava a fare quello che aveva deciso, cioè quello che voleva lui. La diplomazia va bene. Ma da sola non basta».
Qual è stato un giorno felice della sua vita?
«Quello del mio matrimonio. Quando ho sposato un uomo al quale ho voluto molto bene. Era un uomo molto serio e molto colto, buono e generoso. Oncologo, un medico che non stava a guardare le ore. Faceva il suo lavoro. Era sempre in ospedale. È morto a 93 anni».
Viene spesso citata una sua frase sull’operazione Gladio – ovvero spionaggio della Cia e strutture paramilitari degli Stati Uniti in Italia contro un eventuale attacco delle forze del Patto di Varsavia – è la frase in cui lei dice: «Pur non avendone fatto parte, io non mi sono mai sentita di esprimere un giudizio negativo». Ha ricevuto molte critiche. Lo direbbe ancora?
«Si, certo! È stata logica conseguenza di quello che abbiamo operato con la Osoppo».
Come definirebbe la sua vita attraverso due secoli di Storia?
«Non noiosa. Perché ho sempre trovato da fare e da costruire».
Ha un rimpianto?
«Di aver perso mio fratello così presto. Era il 25 aprile 1944».
Come immagina quello che verrà dopo?
«Fammi indovina e ti farò ricco!».