ilsole24ore.com, 15 aprile 2025
Falsi di moda, nel biennio 2023-24 sequestrate merci per 153 milioni di euro
Secondo un’elaborazione del Centro Studi Confartigianato Imprese Marche su dati CCIAA delle Marche relativi al 4° trimestre 2024, oltre un’impresa su quattro (26,8%) del manifatturiero italiano è esposta alla contraffazione. Con picchi del 46,8% in Toscana e del 37% nelle Marche. Due regioni conosciute per i distretti produttivi nel settore tessile-moda- accessori. Nel complesso, ben 31 province (poco meno di un quarto del totale) registrano un’esposizione superiore alla media. In testa ci sono Prato, con una quota di oltre l’84%; Fermo (63,1%) e Firenze (oltre il 55%). Il Lazio, con più di 40,3 milioni, è di gran lunga la prima regione per numero di pezzi di prodotti contraffatti (non necessariamente articoli di abbigliamento o moda) sequestrati dalla Guardia di Finanza e dall’Agenzia delle dogane nel 2023 mentre gli accessori dell’abbigliamento (Cina), le etichette (Hong Kong e Russia) e gli articoli di abbigliamento (Turchia e India) sono i principali prodotti sequestrati nel 2023 (elaborazione Confartigianato Marche su dati Mimit, Gdf e Agenzia dogane).
Il business si espande online, tra siti ad hoc e social
Dopo le battaglie legali localizzate tra realtà e metaverso (come la querelle tra Hermès e l’artista americano Mason Rotschild per le Meta-birkin) e in attesa dei primi contenziosi a tema intelligenza artificiale, i brand di moda sono concentrati a combattere – accanto alla contraffazione “tradizionale”, con le merci che vengono prodotte all’estero ( nei Paesi di cui sopra) e poi importate in grandi quantità per essere rivendute sul mercato nazionale attraverso canali diversi (negozi, mercati, ambulanti). C’è poi l’ecommerce: il web pullula di piattaforme che offrono prodotti contraffatti, spesso menzionati come «replica». Siti (apparentemente) italiani o stranieri sui quali acquistare falsi di lusso – dalla celeberrima Kelly di Hermès alla Lady Dior, con prezzi che oscillano dai 300 ai 500 euro, oppure la Flap bag di Chanel che, addirittura scontata, si può trovare a 299 dollari – con tanto di recensioni dei clienti che le hanno acquistate e possibilità di contattare il servizio clienti, anche via Whatsapp. La merce, poi, arriva “comodamente” a casa, come accade per un qualsiasi ecommerce. Ai pacchi entro i 150 euro di valore, poi, non si applicano i dazi doganali – questione annosa su cui si è già espressa anche la Commissione Ue, e non solo in merito ai fake ma anche ai prodotti dell’ultra fast fashion che stanno inondando l’Europa -; queste merci “a basso costo” dovrebbero comunque essere controllate in dogana, ma lo sono in minima parte (esperti del settore parlano di 3-4 pacchi ogni 5.000) anche perché lo sdoganamento non avviene in aeroporto ma nella sede dell’importatore.
«I brand non possono abbandonare la vecchia lotta sull’offline – dice Gianluca De Cristofaro, partner Lca – ma devono investire nelle nuove lotte: la Rete però è un bacino enorme per i falsi. La contraffazione via social sta diventando peggiore rispetto a quella sui marketplace che, di contro, stanno cercando di avvicinarsi ai brand».
Il fenomeno dupe e le tutele legali
Ad amplificare il fenomeno dei falsi da qualche anno sono proprio i social media. Dove – attraverso link “anonimi” o nascosti, gli hidden link – si connettono i consumatori con le piattaforme sulle quali è possibile acquistare prodotti falsi attingendo ad ampi cataloghi. E dove spopolano i dupe, prodotti che emulano quelli più iconici, pur non essendo dei veri e propri falsi, e che sono spesso proposti come “alternative meno costose dei prodotti cari e famosi”. Il nome del resto, è un’abbreviazione di duplicate, in inglese copia. Il caso più famoso è la Wirkin di Walmart: in pelle, in tre dimensioni e cinque colorazioni, andata sold out in un battibaleno complice il prezzo, 78 dollari.
Uno dei veicoli principali dei dupe è TikTok. Sul social cinese, al 14 aprile 2025, ci sono 317 mila video con hashtag #dupe, molti dei quali riguardano copie di profumi famosi, ma non mancano prodotti di moda (dall’ “equivalente” del body Skims agli orecchini a goccia di Bottega Veneta, fino ai sandali Oran di Hermès). Secondo un’indagine Trustpilot, il 60% dei consumatori italiani ha affermato di aver acquistato un dupe dopo aver visto il prodotto diventare virale sui social media. «Il fenomeno dei dupe è esploso post Covid perché il lusso ha aumentato molto i prezzi – spiega De Cristofaro – e c’è una nuova generazione di consumatori che vorrebbe acquistare i prodotti di lusso, ma non a queste cifre. Se fino a quindici anni fa i falsi si compravano consapevolmente ma si spacciavano per veri, oggi la mentalità è cambiata molto: c’è un vanto nel non spendere troppi soldi per acquistare il prodotto originale».
I
dupe sono in vendita legalmente sui marketplace più famosi (da Amazon ad Aliexpress), sulle piattaforme dell’ultra fast fashion come Shein o Temu, ma anche nella grande distribuzione italiana. Il confine con i falsi, però, molto spesso è più che labile: su TikTok un’influencer invita ad acquistare il dupe di un paio di ciabattine in Pvc di Gucci, che sul sito di Aliexpress appaiono senza logo, ma in realtà ce l’hanno.
«Nel caso dei dupe la questione legale ruota attorno non alla contraffazione di marchio, figurativo o denominativo, ma di imitazione della forma. In Italia e in Europa esistono strumenti contro i dupe: la tutela della forma, per esempio, se quest’ultima è diventata distintiva. Oppure il diritto d’autore sull’industrial design, per prodotti super iconici. I brand, poi, dovrebbero riprendere a depositare i marchi e i design», continua De Cristofaro.
I dupe sono già finiti in tribunale: Louis Vuitton ha citato Steve Madden, che avrebbe copiato la Multi Pochette Accessoires; GCDS ha portato in tribunale Shein, colpevole di aver imitato il tacco “Morso”. Anche Uniqlo e Coach (Tapestry) hanno fatto causa a Shein, sempre per aver copiato e commercializzato prodotti troppo simili ai propri. Non sempre, però, la via del contenzioso è quella intrapresa dalle aziende: «A volte il dupe è di un piccolo brand e alcuni grandi marchi sono restii anche solo a mandare una diffida per il timore di essere visti come il Davide che agisce contro Golia e avere un danno reputazionale», chiosa De Cristofaro.